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«Da quando è scomparsa?»

«Sì.»

La dottoressa Heller si mise a parlare un po’ troppo velocemente. «Deve capire, lei era gravemente ferito e non avevamo molte speranze di poterla salvare. Era attaccato a un respiratore, con un polmone distrutto e si era anche sviluppata un’infezione. Lei è un medico e non ho quindi bisogno di spiegarle la gravità della situazione. Abbiamo tentato di ridurre le dosi dei medicinali, di aiutarla a risvegliarsi…»

«Da quando?» chiesi di nuovo.

La dottoressa e Regan si scambiarono un’altra occhiata, poi la Heller disse qualcosa che mi svuotò ancora una volta i polmoni di tutta l’aria. «Lei è rimasto senza conoscenza dodici giorni.»

2

«Stiamo facendo tutto il possibile» disse Regan con una voce che sembrava troppo impostata, come se avesse provato quella frase accanto al mio letto mentre io ero ancora senza conoscenza. «Come dicevo, all’inizio non eravamo nemmeno certi che la bambina fosse scomparsa e abbiamo perso del tempo prezioso, ma poi l’abbiamo recuperato. La foto di Tara è stata trasmessa a ogni comando di polizia, aeroporto, casello autostradale, stazione ferroviaria o di autobus, in un raggio di centocinquanta chilometri. Abbiamo esaminato i casi di sequestri precedenti, alla ricerca di un modus operandi, di un sospetto.»

«Dodici giorni» ripetei.

«Abbiamo messo sotto controllo tutti i suoi telefoni, quello di casa, quello dell’ufficio, il cellulare…»

«Perché?»

«Nel caso arrivasse una richiesta di riscatto.»

«Ne sono arrivate?»

«No, non ancora.»

La testa mi ricadde sul cuscino. Dodici giorni. Ero rimasto in quel letto dodici giorni, mentre la mia bambina… allontanai quel pensiero.

Regan si grattò la barba. «Ricorda che cosa indossava Tara quella mattina?»

Lo ricordavo. Avevo instaurato una specie di routine mattutina che vedeva il sottoscritto svegliarsi presto, avvicinarsi in punta di piedi alla culla di Tara e guardarvi dentro. Un bambino molto piccolo non dà soltanto gioia, lo so. So che ci sono momenti di noia mortale che offuscano il cervello. So che certe notti il pianto della creatura ha sui nervi lo stesso effetto di una grattugia. Non voglio perciò colorare di rosa la vita con un neonato. Ma quella routine mattutina mi piaceva, in qualche modo guardare il corpicino di Tara mi dava nuovo vigore. E a parte ciò, quel rituale mi procurava una specie di estasi. Alcuni la raggiungono dentro un tempio, io invece la trovavo in quella culla: sì, lo so che come concetto è decisamente sdolcinato, ma non me ne frega niente.

«Una tutina rosa con dei pinguini neri» risposi. «L’aveva comprata Monica da Baby Gap.»

Prese un appunto. «E Monica?»

«E Monica che cosa?»

Il suo viso era di nuovo assorbito dal taccuino. «Che cosa indossava?»

«Dei jeans.» La rivedevo mentre se li metteva. «E una camicetta rossa.»

Regan prese altri appunti.

«Ci sono… voglio dire, avete qualche pista?» gli domandai.

«Stiamo ancora vagliando tutte le possibilità.»

«Non è questo che vi ho chiesto.»

Regan si limitò a guardarmi. Uno sguardo troppo pesante da sostenere.

Mia figlia. Là fuori. Sola. Per dodici giorni. Pensai ai suoi occhi, a quella luce calda che solo un genitore può vedere, e dissi una cosa stupida: «È viva».

Regan piegò il capo come un cucciolo che sente un suono nuovo.

«Non vi arrendete» dissi.

«Non ci arrenderemo.» Quel suo sguardo strano non mi abbandonava.

«È che… Lei ha figli, detective Regan?»

«Due ragazze.»

«È stupido, ma lo sentirei se fosse morta.» Così come avevo sentito che il mondo non sarebbe stato più lo stesso, dopo la nascita di Tara. «Lo sentirei» ripetei.

Lui non commentò. Mi rendevo conto che ciò che stavo dicendo era ridicolo, considerando oltretutto il mio abituale scetticismo nei confronti delle percezioni extrasensoriali, il soprannaturale o i miracoli. Sapevo che questa “sensazione” era solo frutto del desiderio. Hai un tale bisogno di credere, che il tuo cervello rielabora ciò che vede. Ma io mi ci aggrappavo ugualmente, giusto o sbagliato che fosse, per me era come la cima che viene gettata a uno che è caduto in mare.

«Dovremo chiederle altre informazioni» stava dicendo Regan. «Informazioni su di lei, sua moglie, gli amici, la vostra situazione finanziaria…»

«Più tardi» intervenne di nuovo la dottoressa Heller. Si fece avanti come per strapparmi allo sguardo del poliziotto. «Ora ha bisogno di riposare» disse con voce ferma.

«No, ora» replicai in tono fermo «dobbiamo trovare mia figlia.»

Monica era stata sepolta nel cimitero di famiglia dei Portman, all’interno della tenuta paterna. Me l’ero perso, naturalmente, il suo funerale. Non saprei dire come ho reagito a questo fatto ma, ancora una volta, i miei sentimenti nei confronti di mia moglie erano piuttosto confusi nei difficili momenti in cui riuscivo a essere onesto con me stesso. Monica aveva la bellezza caratteristica delle ragazze privilegiate, con quei suoi zigomi cesellati, i capelli neri lisci come seta e la mascella volitiva da “country club” che irritava ed eccitava al tempo stesso. Il nostro era stato un matrimonio all’antica, cioè sotto la minaccia di una doppietta. D’accordo, sto esagerando. Monica era incinta e io, da indeciso che ero prima dell’annuncio dell’imminente paternità, avevo accolto di buon grado l’idea del matrimonio.

I particolari del funerale me li diede Carson Portman, zio paterno di Monica e unico parente che avesse continuato a mantenere i contatti con noi. Monica gli aveva voluto molto bene. Carson se ne stava seduto accanto al mio letto con le mani strette in grembo. Assomigliava in tutto al mio professore preferito dei tempi del liceo, con quei suoi occhiali dalle lenti spesse, la giacca di tweed consumata sui gomiti e i capelli a metà strada tra Albert Einstein e Don King. Ma gli occhi castani gli brillavano mentre mi spiegava con la sua voce da baritono che Edgar, il padre di Monica, aveva fatto in modo che il funerale di mia moglie fosse “intimo e di buon gusto.”

Non ne dubitavo, in particolare riguardo all’“intimo”.

Nei giorni seguenti venne a trovarmi un certo numero di persone. Mia madre, Honey, come la chiamavano tutti, si materializzava ogni mattina nella mia stanza come spinta da un potente carburante. Ai piedi portava scarpe da ginnastica Reebok candide. La tuta era blu con una striscia dorata, come quella dell’allenatore dei St Louis Rams. I capelli, anche se freschi di parrucchiere, avevano cambiato colore troppe volte e addosso le si sentiva sempre la puzza dell’ultima sigaretta. Il trucco non riusciva a nascondere il tormento per la perdita dell’unica nipotina. Dimostrando una sorprendente energia, se ne stava accanto al mio letto, un giorno dopo l’altro, riuscendo a mettere in circolo una costante corrente d’isterismo. Meglio così. Era come se fosse isterica anche per me e in questo modo, stranamente, i suoi sbalzi d’umore mi tenevano calmo.

Nonostante il caldo torrido che regnava nella stanza, e nonostante le mie contìnue proteste, mamma, mentre dormivo, mi metteva addosso un’altra coperta. Una volta, svegliandomi fradicio, naturalmente di sudore, udii mia madre raccontare all’infermiera nera con il cappellino bianco di quella volta che a soli sette anni ero stato ricoverato al St Elizabeth.

«Aveva la salmonella» le confidò Honey, con quel suo tono cospiratorio di qualche decibel più alto di quello di un corno da caccia. «Mai sentito una puzza di diarrea come quella, gli usciva da tutti i pori. Il tanfo aveva praticamente intriso la carta da parati.»

«Nemmeno adesso è rose e fiori» la informò l’infermiera.

Le due donne si fecero una bella risata.