«E allora?»
«E allora stai attento. Ricordati che con molta probabilità ascoltano le tue telefonate da casa, dall’ufficio e dal cellulare.»
«Torno a chiedertelo: e allora? Io non ho fatto niente.»
«Non hai fatto?…» Lenny agitò le braccia come se si stesse preparando a spiccare il volo. «Ascolta, ti dico solo di stare attento. Magari a te risulta difficile crederlo ma, e ti prego di non trasalire, la polizia a volte altera e distorce le prove.»
«Non capisco più niente. Stai dicendo che sono un sospetto solo perché sono marito e padre?»
«Sì. E no.»
«Okay, grazie, ora è tutto più chiaro.»
Squillò il telefono accanto al mio letto, ma io ero dall’altra parte della camera. «Ti dispiace?»
Lenny sollevò il ricevitore. «È la camera del dottor Seidman.» Mentre ascoltava, il suo viso si oscurò. «Attenda» e mi porse il ricevitore come se fosse stato infettato da germi. Gli rivolsi un’occhiata perplessa. «Pronto?»
«Salve, Marc. Sono Edgar Portman.»
Il padre di Monica. Questo spiegava la reazione di Lenny. Il tono di Edgar era, come al solito, troppo formale. Molti pesano le parole ma una cerchia più ristretta, della quale mio suocero fa parte, prende ogni parola e la posa su una bilancia prima di farsela uscire di bocca.
Fui colto momentaneamente alla sprovvista. «Salve, Edgar» dissi, come un idiota. «Come sta?»
«Bene, grazie. Mi sento in colpa, naturalmente, per non averla chiamata prima, ma avevo saputo da Carson che era molto occupato a riprendersi dalle ferite e ho preferito far passare qualche giorno.»
«Premuroso» dissi, con una punta di sarcasmo.
«Sì, be’, ho sentito che la dimettono oggi.»
«Esatto.»
Edgar si schiarì la voce, cosa che per lui era abbastanza insolita. «Potrebbe passare da casa?»
Da casa. Cioè da casa sua. «Oggi?»
«Il più presto possibile. E da solo, per favore.»
Seguì un silenzio. Lenny mi guardò perplesso.
«Qualcosa non va, Edgar?» gli chiesi.
«Davanti all’ospedale c’è un’auto che l’aspetta, Marc. Parleremo quando arriverà.»
E, prima che potessi dire qualcosa, aveva già riattaccato.
L’auto, una Lincoln Town Car nera, mi stava effettivamente aspettando.
Lenny spinse la mia sedia a rotelle fino all’uscita. La zona la conoscevo, naturalmente, essendo cresciuto a pochi chilometri di distanza dal St Elizabeth. Quando avevo cinque anni mio padre mi aveva portato di corsa al Pronto soccorso (dodici punti) e quando ne avevo sette… be’, la storia della mia salmonella la conoscete già fin troppo bene. Avevo frequentato la facoltà di Medicina e fatto il mio internato a New York, in quello che allora si chiamava Columbia Presbyterian, ma poi ero tornato al St Elizabeth con una borsa di studio in Oftalmologia ricostruttiva.
Sì, sono un chirurgo plastico, ma non come pensate voi. Ogni tanto raddrizzo anch’io qualche naso, ma non mi vedrete mai lavorare con sacchi pieni di silicone o sostanze affini. Con questo, non voglio giudicare nessuno: più semplicemente, io non pratico quel tipo di chirurgia plastica.
Lavoro nel reparto Chirurgia pediatrica ricostruttiva con una ex collega d’università, un tipetto energico che si chiama Zia Leroux e abita nel Bronx. Lavoriamo per un’associazione, One World WrapAid, che abbiamo fondato noi due. Assistiamo i bambini, quasi tutti del Terzo Mondo, affetti da deformità congenite o conseguenti a condizioni di vita di estrema povertà o a guerre. Viaggiamo molto. Ho lavorato su facce maciullate in Sierra Leone, su palati leporini in Mongolia, sulla sindrome di Crouzon in Cambogia, su ustionati nel Bronx. Come molti miei colleghi in questo settore, ho fatto molta pratica. Mi sono specializzato in Otorinolaringoiatria con un anno di pratica in Chirurgia ricostruttiva, plastica, maxillofacciale e, come ho detto, oftalmologica. Zia ha un curriculum analogo al mio, anche se lei è più forte nel maxillofacciale.
Ma se pensate a noi come a dei benefattori vi sbagliate. Avrei potuto rifare tette o tirare la pelle di chi è già troppo bella, o in alternativa avrei potuto aiutare i bambini feriti o vittime della povertà. Ho scelto questi ultimi non tanto per andare in aiuto a chi ha bisogno quanto, ahimè, perché è tra loro che si registrano i casi più interessanti. Molti chirurghi plastici sono, in fondo all’animo, amanti dei puzzle. Siamo gente strana, noi. Ci entusiasmiamo per certe anomalie congenite da circo o per i tumori vistosi. Avete presente quei testi di medicina con immagini di orribili deformità sulle quali a volte non si osa nemmeno posare lo sguardo? Zia e io ne andiamo pazzi. E ancora di più ci piacciono le “riparazioni”, rimettere insieme ciò che è andato a pezzi.
L’aria fresca mi pizzicò i polmoni. Il sole splendeva come se fosse il primo giorno, prendendosi gioco del mio umore cupo. Girai il volto verso il sole per calmarmi con i suoi raggi. Lo faceva anche Monica, diceva che la “destressava”. Le rughe sul suo volto scomparivano come se i raggi fossero stati dei delicati massaggiatori. Tenni gli occhi chiusi. Lenny attendeva in silenzio, senza mettermi fretta.
Mi sono sempre considerato un uomo ipersensibile. Piango con eccessiva facilità guardando film idioti. Non è difficile manipolare le mie emozioni. Ma con mio padre non ho mai pianto. E questo terribile colpo che avevo appena ricevuto non era riuscito a strapparmi nemmeno una lacrima, non so perché. Forse si trattava di un classico meccanismo di difesa. Dovevo tirare avanti. Lo stesso accade più o meno nel mio lavoro, quando compare qualche crepa devo ripianarla prima che si cronicizzi.
Lenny era ancora imbestialito per la telefonata che avevo ricevuto. «Hai idea di che cosa possa volere quel vecchio bastardo?»
«Assolutamente no.»
Tacque per qualche istante e capii a cosa stava pensando. Lenny attribuiva a Edgar la responsabilità della morte di suo padre, un dirigente di medio livello nella ProNess Foods, una delle holding di mio suocero. Aveva lavorato ventisei anni per quella società, come uno schiavo, e ne aveva cinquantasei quando Edgar aveva deciso una maxi fusione e lui, il padre di Lenny, aveva perso il posto. Ricordo ancora il signor Marcus seduto al tavolo di cucina, con le spalle curve, che imbustava con la massima attenzione il suo curriculum. Ma non trovò nessun altro lavoro e due anni dopo venne stroncato da un infarto. Nulla potrà mai convincere Lenny che i due fatti non fossero collegati.
«Davvero non vuoi che venga con te?» mi chiese.
«No, non preoccuparti.»
«Ce l’hai il cellulare?»
Glielo mostrai.
«Chiamami, se ti serve qualcosa.»
Lo ringraziai e rimasi a guardarlo mentre si allontanava. L’autista aprì lo sportello ed entrai con una smorfia di dolore. La nostra meta non era lontana: Kasselton, New Jersey, il mio paese. Passammo davanti alle ville a piani sfalsati degli anni Sessanta, ai ranch ampliati degli anni Settanta, alle modanature di alluminio degli anni Ottanta, alle McMansion degli anni Novanta. La boscaglia si fece più fitta, le ville si allontanarono progressivamente dal ciglio della strada protette dalla vegetazione rigogliosa, separate dalla plebaglia. Ci stavamo avvicinando alla vecchia ricchezza, a quella terra per pochi eletti che sapeva sempre di autunno e fumo di legna.
La famiglia Portman si era insediata in questo bosco subito dopo la Guerra Civile. Come in quasi tutto il New Jersey extra urbano, quello era in origine terreno agricolo. Il trisnonno Portman lo vendette e fece la sua fortuna. Possedevano ancora sedici acri e la loro era una delle tenute più estese della zona. Mentre l’auto risaliva il vialetto in direzione della villa, lo sguardo mi cadde sul piccolo cimitero di famiglia alla mia sinistra.