Vidi un monticello di terra smossa.
«Fermi l’auto» dissi.
«Mi dispiace, dottor Seidman, ma mi hanno detto di portarla subito alla villa.»
Stavo per protestare, ma cambiai immediatamente idea. Attesi che l’auto si fermasse davanti alla porta d’ingresso, poi scesi e tornai indietro. Udii l’autista chiamarmi: «Dottor Seidman…» ma non mi fermai. Mi chiamò un’altra volta e continuai a ignorarlo. Nonostante fosse piovuto poco, l’erba era del verde tipico delle foreste pluviali. Il roseto era in pieno rigoglio, un’esplosione di colore.
Provai ad affrettare il passo, ma sembrava che la mia pelle dovesse spezzarsi da un momento all’altro e rallentai. Era la terza volta che entravo nella tenuta dei Portman, da giovane l’avevo guardata dall’esterno decine di volte, e non avevo mai visto il cimitero di famiglia: anzi, come fanno di solito le persone razionali, cercavo in tutti ì modi di tenermene lontano. L’idea di seppellire nel giardino di casa una persona cara come se fosse un animale domestico… insomma, era una di quelle cose tipiche dei ricchi che noi gente normale non riusciremo mai a capire. O non avremo mai voglia di capire.
Lo steccato attorno al piccolo cimitero era alto una sessantina di centimetri e di un bianco abbacinante, tanto che mi chiesi se non fosse stato appena riverniciato. Scavalcai l’inutile cancelletto e passai davanti alle modeste pietre tombali, senza perdere d’occhio il monticello di terra smossa. Quando vi arrivai, mi sentii squassato da un brivido. Abbassai lo sguardo.
Sì, era una tomba scavata da poco. Non c’era ancora la lapide, soltanto un cartello sul quale, scritto nel carattere delle partecipazioni di nozze, si leggeva semplicemente: LA NOSTRA MONICA.
Rimasi lì, a battere le palpebre. Monica. La mia bella dagli occhi selvaggi. Il nostro era stato un rapporto turbolento, il classico caso di troppa passione all’inizio e troppo poca verso la fine. Non so perché succeda una cosa del genere. Monica era diversa, questo è poco ma sicuro. All’inizio quella sua effervescenza, l’entusiasmo, mi avevano attratto. Più tardi i suoi cambiamenti d’umore riuscivano solo a stufarmi. Non avevo avuto la pazienza di andare in profondità.
Guardando quella terra mi sentii assalire da un ricordo doloroso. Due sere prima della tragedia, entrando in camera da letto, avevo trovato Monica in lacrime. Non era la prima volta, tutt’altro. Interpretando la mia parte in quella commedia che era diventata la nostra vita, io ogni volta le chiedevo che cosa avesse, ma senza particolare interesse. Di solito glielo chiedevo con maggiore preoccupazione, ma Monica non rispondeva. Cercavo di stringerla tra le braccia, ma lei s’irrigidiva. Dopo un po’ quell’assenza di reattività diventava stancante, una specie di “al lupo, al lupo!” che alla fine ti inaridiva il cuore. È anche questa la vita con una depressa. Non si può star sempre a preoccuparsi per qualcuno, a un certo punto bisogna cominciare ad arrabbiarsi.
Questo era, almeno, ciò che mi dicevo.
Ma quella volta accadde qualcosa di diverso. Monica mi rispose, ma la sua non fu una risposta lunga. Una frase brevissima: “Tu non mi ami”, fu tutto quello che disse. Solo questo. Senza alcuna compassione. “Tu non mi ami.” E mentre mi apprestavo a rispondere con proteste di rito, mi chiesi se per caso non avesse ragione lei.
Chiusi gli occhi e mi lasciai sommergere dal ricordo. Le cose non andavano bene, ma da sei mesi a quella parte avevamo una valvola di sfogo, un obiettivo caldo e tranquillo rappresentato da nostra figlia. Alzai gli occhi al cielo, battei nuovamente le palpebre e quindi riportai lo sguardo sulla terra che ricopriva la mia volubile moglie. «Monica» dissi ad alta voce. E poi presi con lei un ultimo impegno.
Giurai sulla sua tomba che avrei ritrovato Tara.
Un cameriere, o maggiordomo, o collaboratore domestico, o qualunque cosa adesso si usi per indicare la categoria, mi precedette lungo il corridoio fino alla biblioteca. L’arredamento era sotto tono anche se inequivocabilmente da ricchi: pavimenti scuri e levigati coperti da semplici tappeti orientali, mobili in stile Old America più robusti che elaborati. Nonostante il denaro e l’estensione della propria tenuta, Edgar non era tipo da ostentare la sua ricchezza. Il termine nouveau riche era per lui profano, impronunciabile.
Edgar indossava un blazer blu di cachemire ed era seduto alla sua enorme scrivania di quercia. Appena mi vide entrare si alzò. C’era una penna d’oca sulla scrivania, appartenuta, se non ricordo male, al suo bisnonno, e due busti bronzei di Jefferson e Washington. Mi sorpresi nel vedere seduto davanti alla scrivania lo zio Carson. Quando mi era venuto a trovare in ospedale ero troppo debole per poterlo abbracciare ma lo fece lui in quel momento e mi tenne stretto. Rimasi in silenzio tra le sue braccia, anche lui sapeva di autunno e di fumo di legna.
Non c’erano foto in quella stanza, nessuna istantanea delle vacanze di famiglia, nessuna foto di classe, nessuna del padrone di casa e signora in pompa magna in occasione di una festa di beneficenza. Credo di non aver mai visto nemmeno una foto in quella casa.
«Come si sente, Marc?» mi chiese Carson.
Gli risposi che mi sentivo come si sarebbe sentito chiunque nelle mie condizioni e mi voltai verso mio suocero. Edgar non girò attorno alla scrivania per venirmi incontro. Non ci abbracciammo, non ci stringemmo nemmeno la mano. Mi indicò la poltrona davanti alla scrivania.
Non lo conoscevo molto bene, Edgar. Ci eravamo visti soltanto tre volte. Non so quanti soldi abbia ma anche fuori da questo contesto, anche per strada o in una stazione delle corriere, anche nudo, maledizione, si capiva che un Portman era sinonimo di ricchezza. Monica era fatta della stessa pasta, aveva quel qualcosa che si acquisisce generazione dopo generazione, qualcosa che non si insegna, qualcosa che si può considerare genetico, letteralmente. La decisione di venire ad abitare nella nostra casa relativamente modesta era stata con ogni probabilità una forma di ribellione.
Aveva odiato suo padre.
Nemmeno io andavo matto per lui, forse perché di tipi così ne avevo già conosciuti. Edgar si considera uno che si è fatto da sé, ma anche lui i soldi li ha fatti all’antica: ereditandoli. Non conosco molti super ricchi, però ho notato che più le cose ti vengono offerte su un piatto d’argento e più ti lamenti dei contributi alle madri bisognose e delle sovvenzioni governative. È a dir poco strano. Edgar appartiene a quella classe di fortunati che si autoconvincono di essersi guadagnati il loro status lavorando sodo. Tutti abbiamo la tendenza a giustificare noi stessi, naturalmente, e se non hai mai dovuto faticare per mantenerti, se vivi nel lusso e non hai fatto nulla per meritartelo, immagino che tutto questo vada ad alimentare le tue insicurezze. Ma non dovrebbe renderti, per giunta, così ipocrita.
Mi sedetti, imitato da Edgar; Carson invece rimase in piedi. Guardai Edgar, era in carne come tutti quelli che mangiano bene, il viso fatto di morbide rotondità. Ma le sue guance tutt’altro che ossute avevano perso il colorito rubizzo. Intrecciò le dita e posò le mani sullo stomaco prominente. Sembrava distrutto, teso, avvizzito, e la cosa mi sorprese.
Mi sorprese perché avevo sempre considerato Edgar una specie di id puro, una persona il cui piacere o dolore dovesse prevalere su quello degli altri, uno convinto che gli abitanti dello spazio attorno a lui fossero poco più di un semplice allestimento vetrinistico a suo uso e consumo. Edgar aveva perso un figlio e ora una figlia. Il maschio, Eddie IV, era morto dieci anni prima in un incidente stradale. Guidava ubriaco e aveva superato la doppia linea gialla finendo nella cunetta spartitraffico. Secondo Monica l’aveva fatto apposta e lei per qualche motivo dava la colpa al padre. Dava quasi sempre la colpa al padre.
C’è anche la madre di Monica. “Riposa” molto, la signora Portman, fa vacanze “prolungate”. Insomma, entra ed esce dalle case di cura. Nelle due circostanze in cui l’ho vista, mia suocera era pronta per qualche occasione sociale, tutta in ghingheri e incipriata, gentile e troppo pallida, aveva lo sguardo vuoto, biascicava le parole e dondolava leggermente.