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«Sempre.»

«Certo. A proposito, i poliziotti non sono stupidi. Pensano che se ti sei servito dell’auto di un’amica ora probabilmente te ne sei fatto prestare un’altra.»

Capii che mi stava dicendo di non usare l’auto di Lenny.

«Ora è meglio riagganciare. Ti amo» disse.

Tornai in casa. Verne aveva aperto con una chiave l’armadio delle armi e le stava controllando. All’altra estremità della stanza aveva una cassa blindata con le munizioni, che si apriva con una combinazione. Da dietro le sue spalle ne guardai il contenuto e lui mi fissò battendo le palpebre: aveva un arsenale tale da poter dichiarare guerra a una nazione europea.

Gli riferii della mia telefonata con Zia e lui non esitò. «Ho quello che fa per te» mi disse, dandomi una pacca sulla schiena. Dieci minuti dopo Rachel, Katarina e io ci allontanavamo a bordo di una Camaro bianca.

38

Trovammo subito la ragazza incinta.

Prima di allontanarci a tutto gas sull’auto di Verne, Rachel aveva fatto una doccia veloce per togliersi le macchie di sangue e la sporcizia. Io le avevo cambiato in fretta le medicazioni. Katarina le aveva prestato un abito estivo stampato a fiori, comodo ma aderente nei punti giusti. Rachel aveva i capelli bagnati e le gocciolavano ancora quando entrammo in macchina. Ma per me in quel momento ecchimosi e lividi erano scomparsi: ero sicuro di non avere mai visto in vita mia una donna più bella.

Katarina insistette per occupare il sedile posteriore ribaltabile e io e Rachel ci sedemmo nei due anteriori. Per qualche minuto nessuno aprì bocca: probabilmente eravamo in fase di decompressione.

Poi fu Rachel a rompere il silenzio. «A proposito di quello che ha detto Verne sui segreti e sul passato da dimenticare» cominciò.

Continuai a guidare.

«Non l’ho ucciso io mio marito, Marc.»

Sembrava che non le importasse nulla della presenza di Katarina. E nemmeno a me. «La versione ufficiale è quella dell’incidente» dissi.

«La versione ufficiale è falsa.» Emise un lungo respiro. Aveva bisogno di tempo per riprendersi e glielo concessi.

«Jerry si era già sposato una volta. Dal primo matrimonio erano nati due figli, uno dei quali, Derrick, soffre di paralisi cerebrale e le spese mediche sono assurde. Jerry non ha mai avuto molta dimestichezza con la gestione familiare, ma in quel caso diede il meglio di sé, arrivando addirittura a stipulare a suo nome una vantaggiosa polizza assicurativa nel caso gli fosse successo qualcosa.»

Con la coda dell’occhio le guardai le mani. Non le muoveva, non le stringeva a pugno, ma le teneva ferme in grembo.

«Il nostro matrimonio fallì per un mucchio di motivi, di alcuni dei quali ti ho già parlato. Non lo amavo e lui probabilmente se n’era accorto, ma Jerry era comunque un maniaco depressivo e quando non prendeva le sue medicine peggiorava. Così alla fine decisi di divorziare.»

Le rivolsi una rapida occhiata, si mordicchiava il labbro e batteva le palpebre.

«Il giorno in cui gli arrivarono i documenti con la mia istanza di divorzio, Jerry si sparò in testa. Fui io a trovarlo: era riverso sul tavolo della cucina. C’era una lettera indirizzata a me, riconobbi subito la grafia di Jerry. La aprii, conteneva un foglio di carta sul quale aveva scritto una sola parola: “Cagna”.»

Katarina le poggiò una mano sulla spalla in segno di solidarietà. Io mi concentrai ancora di più sulla guida.

«Secondo me Jerry l’aveva fatto di proposito» riprese «sapendo quello che ne sarebbe conseguito.»

«Cioè?»

«In caso di suicidio l’assicurazione non avrebbe pagato e allora Derrick non si sarebbe più potuto permettere le cure mediche. Non potevo permetterlo. Chiamai uno dei miei ex capi oltre che grande amico di Jerry, Joseph Pistillo, uno che nell’FBI ha un certo potere. Lui si portò dietro alcuni dei suoi e facemmo in modo che il suicidio sembrasse un incidente. La versione ufficiale fu che mio marito l’avevo ucciso io scambiandolo per un ladro, e la polizia locale e l’assicurazione furono convinti ad accettarla.»

«Perché allora hai dato le dimissioni?»

«Perché i miei colleghi non l’avevano bevuta, quella storia, e cominciarono a sospettare che fossi l’amante di un pezzo grosso. Pistillo non poteva proteggermi, non avrebbe fatto una bella figura, e io non ero in grado di difendermi. Tentai di tenere duro, di stringere i denti, ma all’FBI non c’è posto per gli indesiderati.»

Reclinò il capo sul poggiatesta e si mise a guardare dal finestrino. Non sapevo che cosa pensare di quel racconto, non sapevo ancora come regolarmi. Avrei voluto dirle qualche parola di conforto, ma non ne trovai. E continuai a guidare finché per fortuna non arrivammo a Union City.

Katarina andò al banco del motel, fingendo di conoscere solo il serbo, e prese a gesticolare fino a quando l’impiegato, per togliersela dai piedi, le diede il numero di stanza dell’unica persona nell’edificio che parlava quella lingua. Cominciava l’avventura.

Più che una normale stanza di motel, quella della ragazza incinta si sarebbe potuta definire uno scadente monolocale. Se parlo di “ragazza” incinta è perché Tatiana, almeno così aveva detto di chiamarsi, sosteneva di avere sedici anni: ma secondo me era ancora più giovane. Aveva gli occhi incavati di certe bambine che si vedono nei documentari di guerra, e con molta probabilità quello era proprio il suo caso.

Rimasi in disparte, quasi fuori dalla stanza, insieme a Rachel. Tatiana non parlava la nostra lingua e lasciammo quindi gestire la faccenda a Katarina. Le due donne parlarono per una decina di minuti, a cui seguì un breve silenzio. Poi Tatiana sospirò, aprì il cassetto sotto il telefono e diede un foglio di carta a Katarina, che la baciò su una guancia e tornò da noi.

«Ha paura» ci informò. «Conosceva solo Pavel, che ieri l’ha lasciata qui dicendole di non uscire per alcun motivo.»

Guardai Tatiana e le sorrisi per rassicurarla, certamente senza riuscirci.

«Che cos’ha detto?» le chiese Rachel.

«Non sa nulla, come non sapevo nulla io. Sa soltanto che il suo bambino vivrà in una bella casa.»

«Che cos’era quel pezzo di carta che le ha dato?»

Katarina me lo mostrò. «È un numero di telefono. Le hanno detto che in caso di emergenza deve chiamare questo numero, seguito da quattro 9.»

«Un cercapersone, quindi.»

«Sì, credo di sì.»

Guardai Rachel. «È possibile risalire all’intestatario?»

«Sì, ma dubito che potrà esserci utile. È facile farsi assegnare un cercapersone dando un nome falso.»

«Chiamiamolo, allora.» Mi rivolsi a Katarina. «Tatiana ha conosciuto qualcun altro oltre a suo fratello?»

«No.»

«Allora chiami lei spacciandosi per Tatiana, e dica a chi risponde che ha un’emorragia o sta male, che insomma ha bisogno di aiuto.»

«Calma, aspetta un attimo» intervenne Rachel.

«Dobbiamo far venire qui qualcuno.»

«E poi?»

«Come sarebbe a dire, e poi? Tu interroghi chi viene, non è il tuo mestiere, Rachel?»

«Non sono più un’agente federale. E anche se lo fossi non possiamo assalirli come proponi tu. Immagina per un attimo di essere uno di loro, che si trova all’improvviso ad avere a che fare con me. Tu come ti comporteresti, se fossi coinvolto in questa faccenda?»

«Cercherei un accordo.»

«Forse. Oppure potresti chiuderti a riccio e pretendere un avvocato. Sai che bel successo per noi.»

Ci pensai su. «Se chiede un avvocato, tu lo dai a me e me lo lavoro io.»

Rachel mi fissò. «Stai parlando seriamente?»

«C’è in ballo la vita di mia figlia.»

«Ora ci sono in ballo tanti bambini, Marc. Questa è gente che compra e vende bambini e dobbiamo metterla in condizione di non nuocere.»

«Tu allora che cosa consigli?»

«Chiamiamo quel numero, come dici tu, ma facciamo parlare Tatiana che dovrà convincerli a venire qui. Mentre quelli la visitano noi gli prendiamo il numero di targa e poi, quando se ne vanno, li seguiamo e scopriamo dove abitano.»