«Non capisco, non può farla Katarina questa telefonata?»
«No, perché chi verrà vorrà vedere la donna con cui ha parlato al telefono e Tatiana e Katarina hanno voci diverse.»
«Ma perché complicarci tanto la vita, se vengono qui. Perché rischiare di seguirli?»
Rachel chiuse gli occhi, poi li riaprì. «Prova a pensarci, Marc, come reagiranno se scoprono che gli stiamo dando la caccia?»
Non risposi.
«E voglio mettere in chiaro anche un’altra cosa. Non si tratta più solo di Tara, questa gente va fermata.»
Capii il suo punto di vista. «E se invece affrontiamo qualcuno qui dentro li mettiamo sull’avviso.»
«Esatto.»
Non so quanto mi interessasse tutto il resto. La mia priorità si chiamava Tara e se l’FBI o la polizia volevano incastrare quella gente io non avevo nulla da obiettare. Ma il mio radar personale aveva un altro obiettivo da localizzare.
Katarina spiegò a Tatiana il nostro piano e capii che la ragazzina non ci stava, era impietrita, continuava a fare segno di no con la testa. Passò del tempo, e non potevamo permettercelo. Alla fine non riuscii più a trattenermi e decisi di fare una pazzia: presi il telefono, composi il numero del cercapersone e premetti quattro volte il numero 9. Tatiana si immobilizzò.
«Adesso tu parli» le dissi.
Katarina tradusse.
Nei due minuti successivi nessuno aprì bocca e tutti rimanemmo a guardare Tatiana. E quando il telefono squillò, ciò che vidi negli occhi della ragazzina non mi piacque. Katarina le disse qualcosa, parlando in fretta, ma quella scosse il capo e incrociò le braccia. Il telefono squillò una terza volta, poi una quarta.
Estrassi la pistola.
«Marc» disse Rachel.
Tenni la pistola puntata verso il basso. «Lo sa che stiamo parlando della vita di mia figlia?»
Katarina si mise a parlare affannosamente in serbo, io fissai torvo Tatiana, ma lei non ebbe alcuna reazione. Allora sollevai la pistola e sparai. La lampadina esplose e l’eco della detonazione riecheggiò nella stanza. Tutti sobbalzarono. Era stata, la mia, un’altra mossa stupida, lo sapevo. Ma non m’importava granché.
«Marc!»
Rachel mi mise una mano sul braccio, ma io l’allontanai e guardai Katarina. «Le dica che se quello riattacca…»
Non ebbi bisogno di terminare la frase, lei si mise di nuovo a parlare velocemente in serbo. La pistola adesso la tenevo ancora puntata verso il basso. Tatiana continuava a guardarmi. Avevo la fronte imperlata di sudore, tremavo. Il volto di Tatiana cominciò a distendersi mentre lei mi fissava.
«Per favore» dissi.
Al sesto squillo Tatiana sollevò il ricevitore e cominciò a parlare.
Lanciai un’occhiata a Katarina, che sempre ascoltando la conversazione mi fece un cenno d’assenso con il capo. Mi spostai all’altro lato della stanza, con la pistola in mano. Rachel mi guardò e io le restituii lo sguardo.
E fu lei a battere per prima le palpebre.
Fermammo la Camaro nel parcheggio di un ristorante nell’isolato successivo e attendemmo.
Nessuno parlava, ognuno di noi tre cercava se possibile di guardare da un’altra parte come fanno gli sconosciuti in ascensore. Non sapevo che cosa dire, non riuscivo a capire come mi sentivo. Avevo sparato un colpo di pistola, ed ero arrivato quasi al punto di minacciare una minorenne. E, quel che era peggio, non me ne fregava niente. Le conseguenze, ammesso che ve ne fossero, sembravano lontanissime, nuvole di tempesta che si accumulano per poi disperdersi.
Accesi la radio sintonizzandomi su una stazione locale. Mi aspettavo che da un momento all’altro interrompessero il notiziario per dare una notizia dell’ultima ora con i nostri nomi, i nostri identikit e le raccomandazioni agli ascoltatori di prestare la massima attenzione perché eravamo armati e pericolosi. Ma invece non si parlò di una sparatoria a Kasselton né di eventuali ricerche dei responsabili da parte della polizia.
Io e Rachel eravamo ancora seduti davanti, mentre Katarina si era sdraiata sul sedile posteriore. Rachel aveva estratto il palmare e teneva lo stilo puntato sullo schermo. Pensai di telefonare a Lenny, ma poi mi venne in mente ciò che mi aveva appena detto Zia riguardo al rischio di essere intercettato. E poi non avevo granché da dirgli, a parte il fatto di avere minacciato una sedicenne incinta con una pistola sottratta al cadavere di uno assassinato nel giardino di casa mia. L’avvocato Lenny non avrebbe sicuramente gradito questi particolari.
«Credi che collaborerà?» chiesi.
Rachel si strinse nelle spalle.
Tatiana ci aveva garantito la sua collaborazione, ma non sapevo se crederle. Così, per non sbagliare, avevo staccato il telefono dalla presa, portandomi via il filo della cornetta. Poi mi ero messo a cercare eventuali foglietti di carta e penne in modo da evitare che la ragazzina passasse un biglietto a chi sarebbe venuto, ma non ne trovai. Rachel aveva messo sul davanzale il suo cellulare acceso, per ascoltare ciò che veniva detto, e ora Katarina se ne stava con il suo di cellulare appoggiato all’orecchio, pronta a tradurre.
Mezz’ora dopo il rombo di un motore annunciò l’arrivo nel parcheggio di una Lexus SC 430 color oro metallizzato. Espressi con un fischio il mio apprezzamento, un collega all’ospedale si era appena comprato quell’auto, che gli era costata sessantamila dollari. La donna che scese dalla Lexus aveva i capelli bianchi, corti, indossava una camicetta bianca come i capelli ma troppo stretta e, tanto per rimanere in tema, dei pantaloni bianchi così aderenti da sembrare una seconda pelle. Aveva braccia tornite e abbronzate, insomma avete capito che tipo di donna era. Ricordava le socie ultraquarantenni dei tennis club che si conciano come se avessero vent’anni.
Rachel e io ci voltammo contemporaneamente verso Katarina, che annuì con aria solenne. «Sì, è lei quella che mi ha aiutato a partorire.»
Subito dopo vidi Rachel armeggiare con il palmare. «Che cosa stai facendo?» le chiesi.
«Inserisco tipo e numero di targa dell’auto, tra qualche minuto dovremmo sapere a chi è intestata.»
«E come fai?»
«Non è difficile, tutti quelli che appartengono alle forze dell’ordine hanno i propri contatti, ma anche nel caso non ne avessero, possono sempre pagare qualcuno alla Motorizzazione. Cinquecento dollari, di solito.»
«Sei in rete o qualcosa del genere?»
Fece di sì con il capo. «È un modem senza fili. Un mio amico, Harold Fisher, fa il tecnico di computer free-lance e non gli è piaciuto il modo in cui l’FBI mi ha costretto ad andarmene.»
«E allora ti dà una mano?»
«Sì.»
La donna dai capelli bianchi infilò un braccio dentro l’auto e tirò fuori quella che sembrava una borsa da medico, poi inforcò un paio di occhiali da sole griffati e si diresse a grandi passi verso la stanza di Tatiana. Bussò, la porta si aprì, e lei entrò. Mi voltai a guardare Katarina, che aveva selezionato la modalità MUTE sul suo cellulare. «Tatiana le sta dicendo che ora si sente meglio, la donna è seccata perché l’ha chiamata senza motivo.» S’interruppe.
«Hanno detto qualche nome, finora?»
Lei scosse il capo. «La donna sta per visitarla.»
Rachel fissava il suo piccolo palmare come se fosse stato una sfera di cristallo. «Bingo! Ci siamo.»
«Che cosa?»
«Denise Vanech, 47 Riverview Avenue, Ridgewood, New Jersey. Quarantasei anni. Neanche una multa per divieto di sosta.»
«Come hai fatto ad avere queste informazioni tanto velocemente?»
«Harold non deve fare altro che comporre sulla tastiera il numero di targa. Adesso sta cercando eventuali altri dati.» Rachel si mise nuovamente ad armeggiare con il palmare. «Nel frattempo inserisco il nome su Google.»