Rimase a guardare il telefono avvertendo una sgradevole sensazione nello stomaco. Non era un eroe quello che si accingeva a chiamare, anzi esattamente il contrario. Ma alla fine ciò che contava era sopravvivere, le belle parole e le giustificazioni andavano bene in tempo di pace. In tempo di guerra, nei casi di vita o di morte, era più semplice: noi o loro. Sollevò la cornetta e compose il numero.
Lydia rispose con la consueta dolcezza. «Salve, Steven.»
«Ho ancora bisogno di voi.»
«Sei nei guai?»
«Guai seri.»
«Arriviamo.»
39
«Quando sono arrivata lei era in bagno» disse Rachel. «Ma ho il sospetto che avesse appena fatto una telefonata.»
«Perché?»
«Perché in bagno c’era la fila e tra me e lei c’erano solo tre persone. Se fosse entrata subito nella toilette ce ne sarebbero state di più.»
«Possiamo sapere chi ha chiamato?»
«Non subito, tutti i telefoni erano occupati. Ci vorrebbe del tempo per scoprire dov’era diretta la sua telefonata, anche se avessi a disposizione tutte le attrezzature dell’FBI.»
«Allora continuiamo a pedinarla?»
«Sì.» Rachel si voltò verso Katarina. «Ci sono delle cartine stradali in macchina?»
Lei sorrise. «Moltissime, a Verne piacciono. Le vuoi di tutto il mondo, degli Stati Uniti, di questo stato?»
«Dello stato.»
Frugò nella tasca dietro il mio sedile e allungò a Rachel l’atlante stradale. Rachel tolse il cappuccio a una penna e prese a tracciare delle righe sulla cartina.
«Che cosa stai facendo?» le chiesi.
«Non lo so bene nemmeno io.»
Squillò il cellulare, risposi.
«Tutto bene?»
«Sì, Verne, stiamo tutti bene.»
«Ho fatto venire mia sorella per stare con i bambini, sono con il pick-up. Voi da che parte state andando?»
Gli spiegai che eravamo diretti a Ridgewood, lui conosceva la zona.
«Sono a una ventina di minuti da Ridgeway» disse. «Ci vediamo alla Ridgeway Coffee Company di Wilsey Square.»
«È probabile che noi stiamo andando a casa dell’ostetrica.»
«Vi aspetterò.»
«Okay.»
«Senti, Marc, non per fare il sentimentale, ma se c’è bisogno di qualcuno che spari…»
«Te lo farò sapere.»
La Lexus svoltò in Linwood Avenue e noi aumentammo la distanza. Rachel era sempre a capo chino, occupata con il palmare e la penna con cui continuava a fare segni sulla cartina. Arrivata in periferia, Denise Vanech svoltò a sinistra in Waltherly Road.
«Sta decisamente ritornando a casa» disse Rachel. «Lasciamola, bisogna studiare la situazione.»
Non riuscii a credere ciò che stava dicendo. «Come sarebbe a dire “studiare la situazione”? Dobbiamo affrontare quella donna.»
«Non ancora, sto lavorando a un piano.»
«Quale?»
«Dammi qualche altro minuto.»
Rallentai e girai a destra lungo la Van Dien, accanto al Valley Hospital. Mi voltai a guardare Katarina, che mi rivolse un timido sorriso. Rachel era ancora occupata a fare sa Dio che cosa. Guardai l’orologio sul cruscotto: era ora di andare all’appuntamento con Verne. Presi la North Maple fino a Ridgewood. Si liberò un posto davanti a un negozio che si chiamava Duxiana e io mi affrettai a parcheggiare. Dall’altra parte della strada vidi il pick-up di Verne, aveva ruote enormi e due adesivi sul paraurti. Su uno c’era scritto CHARLTON HESTON PRESIDENTE, mentre il messaggio dell’altro era più elaborato: SECONDO TE SOMIGLIO A UN’EMORROIDE? ALLORA NON MI STARE ATTACCATO AL CULO.
Il centro di Ridgeway era una via di mezzo tra la sontuosità da cartolina illustrata del primo Novecento e gli stravaganti empori alimentari di oggi. La maggior parte dei negozietti a conduzione familiare di un tempo erano scomparsi, ma le librerie private andavano ancora a gonfie vele. Vidi un’enorme rivendita di materassi, un bel negozio che vendeva paccottiglia degli anni Sessanta, un esercito di boutique, saloni di bellezza e gioiellerie. E naturalmente gran parte dello spazio se l’erano preso le grandi catene come Gap, Williams-Sonoma e l’immancabile Starbucks. Ma soprattutto notai come il centro si fosse trasformato in una vera e propria tavolozza di ristoranti e trattorie, un pot-pourri di mangiatoie per troppi gusti e troppe tasche. Si aveva l’impressione che ogni paese fosse rappresentato da un bistrot, che in qualsiasi direzione si fosse lanciato il proverbiale sasso si sarebbero colpiti tre di questi ristorantini economici.
Rachel si portò dietro l’atlante stradale e il palmare e continuò a lavorare camminando. Verne era entrato nel caffè e chiacchierava con un tipo tarchiato dietro il bancone. Si era messo in testa un berrettino da baseball della Deere e una T-shirt sulla quale si leggeva: MOOSEHEAD: UNA GRANDE BIRRA E UNA NUOVA ESPERIENZA PER UN ALCE.
Ci sedemmo a un tavolino.
«Allora, com’è andata?» chiese Verne.
Lasciai a Katarina il compito di informarlo, e mi misi a osservare Rachel. Ogni volta che facevo per aprire bocca lei alzava un dito per farmi tacere. Dissi a Verne di riportare a casa Katarina, non avevamo più bisogno del suo aiuto, mentre invece i bambini avevano bisogno dei loro genitori. Ma Verne mi sembrò riluttante.
Tra una cosa e l’altra si erano fatte quasi le dieci del mattino. Non ero per niente stanco, la mancanza di sonno non mi crea alcun problema, anche se a tenermi sveglio sono circostanze meno eccitanti. Questo in seguito alle tante notti trascorse di guardia in ospedale.
«Bingo! Ci siamo» disse ancora Rachel.
«Che cosa?»
Senza staccare gli occhi dal palmare, allungò una mano. «Fammi usare il tuo cellulare.»
«Che c’è?»
«Dammelo, va bene?»
Glielo porsi, lei compose un numero e si spostò in un angolo del locale. Katarina si scusò e andò in bagno. Verne mi diede una leggera gomitata, indicandomi poi Rachel.
«Siete innamorati?»
«È complicato» gli risposi.
«Soltanto se sei un coglione è complicato.»
Mi strinsi nelle spalle.
«O sei innamorato o non lo sei. Tutto il resto è roba da coglioni» insistette lui.
«Per questo hai reagito in quel modo sentendo la confessione di Katarina?»
Ci pensò su. «Quello che ha detto e ciò che ha fatto in passato non hanno molta importanza. L’importante è ciò che si ha dentro. Ho dormito sette anni con quella donna, e so che cos’ha dentro.»
«Io non conosco Rachel così bene.»
«Sì, invece. Guardala.» La osservai e mi sentii percorrere da una corrente lieve e delicata. «È stata picchiata a sangue, le hanno sparato, santo Iddio.» S’interruppe. Non lo stavo guardando, ma avrei scommesso che stava scuotendo la sua lunga chioma disgustato. «Se te la lasci scappare lo sai che cosa sei?»
«Un coglione.»
«Un coglione professionista, passi da dilettante a professionista.»
Rachel chiuse la telefonata e tornò velocemente da noi. Forse sono state le parole di Verne, ma giurerei di aver visto luccicare un bagliore di fuoco negli occhi di lei. E quell’abitino estivo, quei capelli arruffati, quel sorriso sicuro e furbo mi fecero fare un tuffo nel passato. Non durò molto, soltanto un attimo: ma forse fu sufficiente.
«Allora?» le chiesi.
Lei riprese ad armeggiare sul palmare. «Devo fare un’ultima cosa, nel frattempo da’ un’occhiata a questo atlante stradale.»
Lo presi e Verne si mise alle mie spalle per guardare anche lui. Puzzava di olio per motori. Sulla cartina lei aveva fatto segni di tutti i tipi: asterischi, crocette e una linea continua che seguiva un percorso tortuoso. Capii subito che cosa stava a indicare.
«Questo è l’itinerario seguito la scorsa notte dai rapitori, e da noi che gli stavamo dietro» dissi.