Ringraziai Jack e corsi alla porta. L’ufficio di Bacard era al primo piano e decisi quindi di aspettarlo sul portone, in modo da poterlo sorprendere in campo neutro prima che Agnes avesse modo di avvertirlo. Trascorsero cinque minuti. Vidi passare diversi impiegati, spossati dalla loro esistenza fatta di toner per stampanti e di fermacarte, appesantiti da borse grosse come bagagliai di un’auto. Continuai a camminare su e giù.
Entrò un’altra coppia e dal loro passo incerto e dagli occhi stanchi capii che anche loro stavano andando da Bacard. Li guardai, chiedendomi che cosa li avesse indotti a prendere quella decisione. Li vidi sposarsi, tenersi per mano, baciarsi, fare l’amore la mattina. Li vidi fare carriera. Li vidi anche preoccuparsi davanti ai primi, inutili tentativi di concepire un figlio: “Aspettiamo il prossimo mese” dicevano a ogni test di gravidanza negativo, ma il tormento si faceva pian piano più forte. Passa un anno. E ancora nulla. Gli amici cominciano ad avere bambini e non parlano d’altro. I rispettivi genitori vogliono sapere quand’è che diventeranno nonni. Vedo marito e moglie andare da un medico, “uno specialista”, vedo le infinite analisi alle quali deve sottoporsi lei, l’umiliazione di masturbarsi dentro una provetta per lui, le domande intime, i campioni di sangue e di urina. Passano altri anni. Gli amici si sono in pratica allontanati. Fare l’amore adesso è praticamente finalizzato alla riproduzione, è un’attività programmata e velata di tristezza. Lui non le tiene più la mano. Lei a letto si gira dall’altra parte, a meno che non sia il periodo fecondo del ciclo. Vedo le medicine, l’inseminazione artificiale dai costi proibitivi, e poi un secondo tentativo, altri test di gravidanza, la delusione insopportabile.
E ora eccoli lì.
No, non sapevo se quello fosse veramente il caso loro, ma sentivo di esserci andato vicino. E mi chiesi fino a che punto si sarebbero spinti per lenire quel dolore, quanto sarebbero stati disposti a pagare.
«Oh mio Dio! Oh mio Dio!»
Mi girai di scatto verso il punto da cui proveniva quel grido. Un uomo entrò di corsa sbattendo la porta. «Chiamate il Pronto intervento!»
«Che succede?» gli chiesi.
Udii un altro grido e corsi fuori. Ancora un grido, questa volta più stridulo.
Guardai a destra: due donne stavano uscendo di corsa dal garage sotterraneo. Mi precipitai giù, superando la barriera davanti alla quale si prende il biglietto. Vi furono altre invocazioni di aiuto, altre affannose richieste del Pronto intervento.
Più avanti vidi un vigilante parlare dentro un walkie-talkie, poi allontanarsi di corsa. Lo seguii. Girato l’angolo, l’uomo si fermò accanto a una donna, che si teneva le mani in faccia e urlava. Li raggiunsi e guardai a terra.
Il cadavere era disteso tra due auto, con gli occhi sbarrati sul nulla. Il viso era ancora grassoccio, il mento sfuggente e la carnagione lucida. Da una ferita alla testa sgorgava del sangue. E il mio mondo tornò a vacillare.
Steven Bacard, forse la mia ultima speranza, era morto.
41
Rachel suonò il campanello. Quello di casa Vanech aveva una di quelle suonerie pretenziose che raggiungono le tonalità acute per poi scendere a quelle basse. Il sole era ormai alto nel cielo azzurro e limpido. In strada due donne camminavano veloci stringendo tra le mani due piccoli manubri viola. Salutarono Rachel con un cenno del capo, senza saltare un passo. Lei ricambiò.
«Sì?» disse una voce al citofono.
«Denise Vanech?»
«Chi parla, prego?»
«Mi chiamo Rachel Mills, sono un’ex agente dell’FBI.»
«Un’ex, ha detto?»
«Sì.»
«Che cosa desidera?»
«Dobbiamo parlare, signora Vanech.»
«Di che cosa?»
Rachel sospirò. «Potrebbe aprire il portone, per favore?»
«No, fino a quando non mi dirà che cosa vuole.»
«Si tratta della ragazzina che lei ha appena visitato a Union City. Tanto per cominciare.»
«Mi dispiace, ma non parlo dei miei pazienti.»
«Per cominciare, ho detto.»
«E poi mi spiega che cosa c’entra in questa faccenda un’ex agente dell’FBI?»
«Preferisce che chiami un agente ancora in servizio?»
«Non m’interessa quello che vuole fare, signora Mills, e non ho altro da dirle. Se l’FBI ha da farmi delle domande può rivolgersi al mio avvocato.»
«Capisco. E il suo avvocato sarebbe Steven Bacard?»
Seguì un breve silenzio. Rachel si voltò a guardare l’auto.
«Signora Vanech?»
«Non sono tenuta a parlare con lei.»
«No, è vero. Vuol dire che comincerò a bussare a ogni porta e a parlare con i suoi vicini.»
«Per chiedergli cosa?»
«Se sanno nulla di un traffico di neonati di cui lei è uno degli artefici.»
La porta venne aperta di scatto e fecero capolino i capelli bianchi e l’abbronzatura di Denise Vanech. «La querelerò per diffamazione.»
«Calunnia» disse Rachel.
«Che cosa?»
«La diffamazione riguarda qualcosa di scritto, la calunnia ciò che viene detto. Calunnia, quindi. In ogni caso dovrà provare che quanto dico è falso ed entrambe sappiamo che invece è vero.»
«Non ha alcuna prova che io ho fatto qualcosa di male.»
«Certo che ce l’ho.»
«Ho visitato una donna che mi aveva detto di non sentirsi bene, tutto qui.»
Rachel le indicò l’auto dalla quale stava scendendo Katarina. «E che mi dice di questa sua ex paziente?»
Denise Vanech si portò una mano alla bocca.
«Testimonierà che ha ricevuto da lei dei soldi in cambio del bambino.»
«Non lo farà, se non vuole essere arrestata.»
«Ma certo, l’FBI preferirà prendersela con una povera donna serba invece di sgominare una banda di trafficanti di neonati. Mi sembra già di vederla, questa scena.»
Denise Vanech rimase in silenzio e Rachel aprì la porta. «Le dispiace se entro?»
«Guardi che si sbaglia» disse lei piano.
«Benissimo.» Rachel era ormai dentro. «Può sempre correggermi, allora.»
Denise Vanech sembrò all’improvviso incerta sul da farsi. Lanciò un altro sguardo a Katarina, poi richiuse lentamente la porta di casa. Rachel stava già entrando nello studio, un ambiente bianco, tutto bianco, con divani bianchi componibili sopra un tappeto bianco. Con statuette di porcellana bianche di donne nude a cavallo, un tavolo bianco, tavolini bianchi e due sedie bianche ergonomiche senza schienale. Denise la seguì, il suo completo bianco era quasi assorbito dallo sfondo, mimetizzato, e si aveva l’impressione che viso e braccia fossero sospesi nell’aria.
«Che cosa vuole?»
«Cerco una bambina in particolare.»
Denise spostò gli occhi verso la porta di casa. «La sua?» Si riferiva a Katarina.
«No.»
«Comunque non ha importanza, io non so a chi vengono dati i bambini.»
«Lei è un’ostetrica, vero?»
Denise incrociò sotto il petto le braccia lisce e muscolose. «Non ho intenzione di rispondere alle sue domande.»
«Vede, Denise, io so quasi tutto. Mi manca solo qualche tassello.» Rachel andò a sedersi su uno dei divani di vinile, ma la padrona di casa rimase in piedi. «Avete dei complici in una nazione straniera, forse più di una, non so, ma sicuramente in Serbia. Cominciamo da lì, allora. Avete gente che assolda le ragazze e le fa venire in America, ma loro alla dogana non dicono di essere incinte. Lei, Denise, fa nascere i bambini: forse qui, o da qualche altra parte, non lo so.»
«Sono tante le cose che non sa.»
Rachel sorrise. «Quello che so è abbastanza.»
Denise si portò le mani sui fianchi. Ogni sua mossa sembrava studiata, come se le avesse provate tutte davanti allo specchio.
«Le ragazze comunque mettono al mondo i loro bambini, lei le paga e poi consegna i neonati a Steven Bacard. All’avvocato si rivolgono coppie disperate, e quindi disposte a violare qualche legge, e lui le aiuta ad adottare un bambino.»