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«Bella storia.»

«Secondo lei sono fantasie?»

Denise sorrise. «Dalla prima all’ultima.»

«Benissimo, splendido.» Rachel prese il cellulare. «Vuol dire che chiamerò i federali e presenterò loro Katarina, poi potranno andare a Union City a fare il terzo grado a Tatiana. Poi, Denise, controlleranno le sue bollette telefoniche, i suoi conti in banca…»

Lei agitò le braccia. «Va bene, va bene, mi dica che cosa vuole. Prima ha detto che non è più un’agente dell’FBI, vero? Si può sapere allora che cosa vuole?»

«Voglio sapere come funziona questa organizzazione.»

«Vuole guadagnarci qualcosa anche lei?»

«No.»

Denise fece una pausa. «Prima ha detto che cercava una certa bambina.»

«Sì.»

«Quindi lei lavora per qualcuno?»

Rachel scosse il capo. «Mi stia a sentire, Denise, non ha molte scelte. O mi dice la verità o passa un bel po’ di anni al fresco.»

«E se le dico quello che so?»

«In questo caso la tengo fuori.» Ma era una bugia, una grossolana bugia. Quella donna era coinvolta in un traffico di bambini e Rachel non poteva in alcun modo tenerla fuori.

Denise si sedette. Sembrava che la sua abbronzatura si fosse sbiadita, e lei d’improvviso sembrò invecchiata, le rughe attorno a occhi e bocca si erano fatte più profonde. «Non è come crede» cominciò.

Rachel attese.

«Non facciamo del male a nessuno, anzi, aiutiamo il prossimo.»

Denise Vanech prese la borsetta, bianca naturalmente, e ne estrasse una sigaretta. Poi ne offrì una a Rachel, che scosse il capo.

«Che cosa sa lei degli orfanotrofi dei paesi poveri?» le chiese Denise.

«Solo quello che vedo nei documentari.»

Denise accese la sigaretta e ne fece una lunga boccata. «Dire che sono terribili è poco. In alcuni ci sono quaranta bambini affidati a una sola infermiera, che spesso non è assolutamente all’altezza del suo compito e che ha ottenuto il posto grazie a raccomandazioni politiche. Alcuni bambini subiscono violenze, molti sono già tossicodipendenti alla nascita. L’assistenza medica…»

«Il quadro mi è chiaro. Ed è terribile.»

«Sì.»

«E allora?»

«E allora abbiamo trovato un sistema per salvare alcuni di quei bambini.»

Rachel incrociò le braccia, aveva capito dove quella voleva arrivare. «Quindi pagate delle ragazze incinte per venire qui, mettere al mondo i loro bambini e venderveli?»

«Questa è un’esagerazione.»

Rachel si strinse nelle spalle. «Perché, lei come descriverebbe ciò che fate?»

«Si metta nei loro panni. Immagini di essere una donna povera, ma povera davvero, magari una prostituta oppure una vittima della tratta delle bianche. Non ha niente di niente. Un uomo ti mette incinta e la scelta è tra abortire oppure, se la tua religione lo vieta, affidare tuo figlio a uno di quegli orfanotrofi dimenticati da Dio.»

«Oppure» aggiunse Rachel «se sei fortunata, finisci con l’avvocato Bacard e soci.»

«Sì. Noi diamo loro un’adeguata assistenza medica, offriamo un risarcimento in denaro. E, soprattutto, ci assicuriamo che il bambino vada a vivere in una bella casa e abbia genitori che gli vogliono bene oltre che in grado di garantirgli la stabilità finanziaria.»

«Stabilità finanziaria» ripeté Rachel. «Vorrebbe dire che i vostri clienti sono tutti ricchi?»

«Si tratta di un servizio costoso» ammise lei. «Ma ora vorrei chiederle una cosa, prendiamo per esempio quella sua amica qui fuori. Ha detto che si chiama Katarina?»

Rachel rimase zitta.

«Che vita farebbe ora se non l’avessimo portata in America? E che vita farebbe suo figlio?»

«Non lo so, non ho idea di che cosa abbiate fatto di suo figlio.»

Denise sorrise. «Bene, polemizzi pure. Ma ha capito benissimo che cosa voglio dire. Crede che il bambino si troverebbe meglio con una madre prostituta e povera, in un paese dilaniato dalla guerra? Oppure qui in America con una famiglia che gli vuole bene?»

«Capisco» disse Rachel, cercando di controllare la propria indignazione. «Voi quindi sareste una specie di campioni mondiali dell’assistenza sociale. È beneficenza, la vostra, mi pare di capire.»

Denise ridacchiò. «Si guardi intorno. Ho gusti costosi, abito in una zona di lusso, ho un figlio al college, vado in vacanza in Europa, ho una casa negli Hamptons. Quindi faccio questo lavoro perché è incredibilmente vantaggioso. E allora? A chi interessano le mie motivazioni? Non cambiano certo le condizioni di quegli orfanotrofi, le mie motivazioni.»

«Continuo a non capire» insistette Rachel. «Quelle ragazze vi vendono i loro bambini?»

«Ci danno i loro bambini» la corresse lei. «E noi diamo loro un risarcimento…»

«Sì, sì, ho capito. Voi vi prendete il bambino e loro i soldi. E poi? Il bambino deve essere accompagnato dalla documentazione necessaria, altrimenti interverrebbero le autorità e non permetterebbero certo a Bacard di gestire in questo modo le adozioni.»

«È vero.»

«Come fate, allora?»

Lei sorrise. «Vuole incastrarmi, vero?»

«Non lo so che cosa farò.»

Denise sorrideva ancora. «Si ricorderà che ho collaborato, vero?»

«Sì.»

Denise Vanech congiunse le mani e chiuse gli occhi, come se stesse pregando. «Ci serviamo di madri americane.»

Rachel fece una smorfia. «Come dice?»

«Per esempio, poniamo che Tatiana stia per avere un bambino. Noi ci rivolgeremmo a lei, Rachel, perché sostenga che il bambino è suo. Per fare questo lei dovrà andare nove mesi prima o giù di lì all’ufficio anagrafe della sua città, comunicare che è incinta e che vuole far nascere il bambino in casa e pertanto di non aspettarsi certificati dall’ospedale. Le daranno dei moduli da compilare e nessuno si sognerà di controllare se lei è veramente incinta. Come potrebbero, d’altronde? Non le possono mica fare una visita ginecologica.»

«Gesù!»

«È piuttosto semplice, se ci pensa. Non esiste alcuna prova scritta che Tatiana sta per avere un bambino, perché alla dogana non l’ha dichiarato, ma esiste la prova scritta che lei è incinta, Rachel. Io faccio nascere il bambino di Tatiana e attesto per iscritto che il figlio è stato messo al mondo da Rachel Mills, che diventa quindi a tutti gli effetti la madre. Bacard poi le fa riempire i moduli per l’adozione…» Si strinse nelle spalle.

«I genitori adottivi non sapranno quindi mai la verità.»

«No, ma non cercano nemmeno di scoprirla. Sono disperati, non vogliono sapere niente.»

Rachel si sentì all’improvviso come svuotata.

«E comunque prima di denunciarci consideri un altro particolare» proseguì Denise. «Svolgiamo quest’attività ormai da quasi dieci anni, il che significa che ci sono bambini, decine di bambini, che durante questi anni sono stati felicemente sistemati presso famiglie americane. Le loro adozioni verrebbero considerate nulle, le madri naturali potrebbero volere indietro i loro figli. O farsi pagare nuovamente. Rovinereste un mucchio di esistenze, insomma.»

Rachel scosse il capo. Ci avrebbe pensato più avanti a quelle conseguenze, non ora. Stava per uscire dalla carreggiata e invece non doveva perdere di vista la meta. Si voltò, raddrizzò le spalle e fissò Denise.

«Che cosa c’entra in questa faccenda Tara Seidman?»

«Chi?»

«Tara Seidman.»

Questa volta fu Denise a mostrarsi confusa. «Aspetti un momento, non era quella neonata rapita a Kasselton?»

Il cellulare di Rachel squillò e sul display apparve il numero di Marc. Stava per premere il tasto verde di risposta quando vide comparire un uomo e il respiro le si bloccò in gola. Denise se ne accorse, si voltò e vedendolo trasalì.

Era l’uomo del parco.