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Vidi un’ombra passare sul volto di Lenny.

«Che cosa c’è?»

«Nulla.»

L’altoparlante chiamò la nostra fila.

Lenny si alzò. «Imbarchiamoci.»

Il volo era in ritardo e arrivammo a St Louis a mezzanotte passata, ora locale. Era troppo tardi per fare qualsiasi cosa, così Lenny prenotò una stanza all’Hotel Marriott dell’aeroporto e io mi comprai qualcosa da mettermi alla loro boutique aperta tutta la notte. Una volta in camera mi feci una lunga doccia bollente, poi ce ne andammo a letto e rimanemmo a fissare il soffitto.

La mattina dopo telefonai in ospedale per informarmi sulle condizioni di Rachel. Dormiva ancora, c’era Zia con lei, che mi assicurò che Rachel si stava riprendendo alla grande. Con Lenny tentammo poi di fare colazione in albergo, ma era come se ci si fosse chiuso lo stomaco. L’auto che avevamo noleggiato ci aspettava nel parcheggio e Lenny si era già fatto dare le indicazioni per raggiungere Hanley Hills.

Non ricordo che cosa vedemmo durante quel breve viaggio: non c’era nulla di notevole a parte in lontananza l’enorme arco metallico che è il simbolo di St Louis. Gli Stati Uniti si sono ormai tutti uniformati. È facile criticarli per questo, io lo faccio spesso, ma forse il loro fascino nasce dal fatto che apprezziamo ciò che conosciamo. Inneggiamo tutti alla necessità di cambiare ma alla fine, specialmente di questi tempi, quello che ci attira davvero è ciò che è familiare.

Quando entrammo ad Hanley Hills sentii un formicolio alle gambe. «E ora che facciamo, Lenny?»

Lui non seppe che cosa rispondermi.

«Posso bussare alla loro porta e dire: “Scusate, credo che quella sia mia figlia”?»

«Potremmo chiamare la polizia e lasciare che provvedano loro.»

Ma non sapevo che conseguenze avrebbe avuto. Eravamo vicinissimi ormai, e dissi a Lenny di tirare dritto. Voltammo a destra in Marsh Lane e mi resi conto che stavo tremando. Con un’occhiata Lenny tentò di esortarmi a non perdere la calma, ma era pallido anche lui. La zona era più modesta di quanto pensassi. Avevo dato per scontato che tutti i clienti di Bacard fossero ricchi, ma evidentemente non era quello il caso.

«Abe Tansmore è un insegnante di scuola media» m’informò Lenny, quasi mi avesse letto nel pensiero. «La moglie Lorraine lavora in una scuola materna tre giorni la settimana. Hanno tutt’e due trentanove anni e sono sposati da diciassette.»

Più avanti vidi una casa con un cartello di ciliegio sul quale si leggeva 26 — TANSMORE. Era una tipica casa a un piano. Le altre abitazioni di quell’isolato sembravano stanche, tranne questa. La vernice brillava come un sorriso, c’erano mille macchie di colore, di fiori, di cespugli, tutti disposti con gusto e potati alla perfezione. C’era uno stuoino con la scritta BENVENUTO. Il praticello era circondato da una bassa staccionata e sul vialetto era parcheggiata una vecchia Volvo station wagon. Si vedeva anche un triciclo e una casetta di plastica dai colori vivaci.

E c’era una donna davanti alla casa.

Lenny andò a fermarsi di fronte a un parcheggio vuoto, ma io non me ne accorsi nemmeno. La donna era in ginocchio tra le aiuole e armeggiava con una zappetta. Aveva i capelli legati dietro la nuca con una bandana rossa e ogni tanto si asciugava con una manica il sudore dalla fronte.

«Hai detto che lavora in una scuola materna?»

«Tre giorni la settimana, e si porta dietro la bambina.»

«Come l’hanno chiamata, la bambina?»

«Natasha.»

Annuii, non so nemmeno io perché. Restammo a guardare: quella Lorraine lavorava sodo, ma si vedeva che le piaceva. Aveva un’aria serena. Aprii lo sportello dell’auto e mi accorsi che stava fischiettando. Non so dire quanti minuti passarono. Davanti a casa si fermò una vicina e Lorraine si alzò per salutarla, la donna indicò il giardino e lei sorrise. Non era bella, Lorraine, ma aveva uno splendido sorriso. La vicina si allontanò, lei le fece un cenno di saluto e si rimise al lavoro.

La porta di casa si aprì.

Era Abe. Era alto, snello e apparentemente forte. Forse solo un po’ stempiato. Lorraine si alzò e guardò alle spalle del marito, facendogli un breve saluto con la mano.

Poi dalla casa uscì di corsa Tara.

Il mondo attorno a noi si fermò. Sentii calare dentro di me una specie di saracinesca. Lenny si irrigidì, biascicando: «Oh mio Dio!».

Ormai non speravo più che potesse arrivare quel momento. Avevo cercato di convincermi, o meglio di illudermi, che forse Tara era viva e stava bene. Ma inconsciamente sapevo che si trattava soltanto di un’illusione, un’illusione che mi faceva l’occhiolino, mi dava di gomito nel sonno, mi sussurrava quell’ovvia verità: non rivedrai più tua figlia.

E invece quella era mia figlia. Ed era viva.

Mi sorprese quanto poco fosse cambiata. Era cresciuta, naturalmente, camminava da sola e sapeva già correre. Ma il suo viso… no, non potevo sbagliarmi, non ero accecato dalla speranza. Quella era Tara, la mia bambina.

Con il sorriso sulle labbra Tara corse da Lorraine, che si chinò con il viso illuminato da quella luce celestiale che risplende solo nei volti delle madri. Prese mia figlia tra le braccia e ora udivo il riso melodioso della piccola. Un suono che mi trafisse il cuore. Cominciai a piangere e Lenny mi poggiò una mano sul braccio. Lo udii tirare su con il naso. Poi vidi il marito, quell’Abe, camminare verso di loro. Anche lui sorrideva.

Rimasi diverse ore a osservarli nel loro perfetto praticello. Vidi Lorraine indicare pazientemente alla bambina i vari fiori dicendole il nome di ognuno. Vidi Abe prendersela a cavalluccio sulle spalle. Vidi Lorraine toglierle il terriccio di dosso. Passò un’altra coppia con una bambina più o meno dell’età di Tara, e Abe e l’altro padre misero le bimbe sull’altalena, le risatine delle piccole mi martellavano nelle orecchie. Alla fine entrarono tutti in casa, Abe e Lorraine per ultimi tenendosi allacciati alla vita.

Lenny si voltò a guardarmi e io piegai il capo all’indierro. Avevo sperato che quel giorno il mio viaggio si sarebbe concluso, ma mi ero sbagliato.

«Andiamocene» dissi dopo un po’.

45

Tornati al Marriott, dissi a Lenny di andare a casa, ma lui voleva rimanere. Gli spiegai allora che me la sarei cavata da solo, che volevo cavarmela da solo, e Lenny anche se controvoglia partì.

Telefonai a Rachel, stava bene, e le raccontai ciò che avevo visto. «Chiama Harold Fisher» le dissi. «Chiedigli di fare accurate ricerche sul conto di Abe e Lorraine Tansmore, voglio scoprire se c’è sotto qualcosa.»

«Okay» disse sottovoce. «Vorrei essere lì con te.»

«Anch’io vorrei che tu fossi qui.»

Sedetti sul letto, prendendomi la testa tra le mani. Non credo di avere pianto, non sapevo più che sensazioni stessi provando. Era finita, avevo saputo ciò che volevo sapere. E quando, dopo un paio d’ore, Rachel mi richiamò, nulla di ciò che mi riferì mi sorprese. Abe e Lorraine erano due persone perbene, lui era stato l’unico della sua famiglia a laurearsi, aveva due sorelle minori ciascuna madre di tre figli che abitavano nella stessa zona. Lui e Lorraine si erano conosciuti quando frequentavano il primo anno alla Washington University di St Louis.

Scese la sera. Mi alzai per guardarmi allo specchio. Mia moglie aveva tentato di uccidermi. Sì, era mentalmente instabile, adesso lo sapevo. Anzi, maledizione, lo sapevo anche allora, ma in questo momento forse non aveva più importanza. Quando un bambino si rompe la faccia io so fare miracoli in sala operatoria, ma la mia famiglia era andata in pezzi e io non avevo saputo fare altro che restare a guardare.

Pensai che cosa significasse essere padre. Amavo mia figlia, ne ero certo. Ma vedendo oggi Abe, e a suo tempo Lenny fare l’allenatore di calcio dei bambini, mi venne da pensare. E mi chiesi se ero veramente a posto, se mi ero veramente impegnato, se meritavo veramente qualcosa.