Lenny e Cheryl abitano a quattro isolati di distanza, dalle parti del Kasselton Mall, nella casa dove Cheryl era cresciuta. I genitori di lei si sono trasferiti in Florida sei anni fa, ma hanno preso un appartamento in un condominio da queste parti, a Roseland, non lontano dalla figlia, in modo da poter ogni tanto venire a trovare i nipotini e sottrarsi alle estati torride della Florida, lo Stato del Sole.
Non mi piace granché abitare a Kasselton, un paese che negli ultimi trent’anni è cambiato pochissimo. Da ragazzi criticavamo i nostri genitori, il loro materialismo, i loro valori apparentemente vuoti. Ora siamo noi, i nostri genitori. Ci siamo limitati a sostituirli, abbiamo spinto mamma e papà in un qualche paesino-gerontocomio. E i nostri figli hanno sostituito noi. Ma in Kasselton Avenue c’è ancora il Maury’s Luncheonette. I vigili del fuoco sono ancora in maggioranza volontari. I ragazzini della Little League giocano ancora a baseball al Northland Field. I tralicci dell’alta tensione sono ancora troppo vicini alla mia vecchia scuola elementare. I ragazzini vanno ancora a fumare nel boschetto dietro la casa dei Brenner, su Rockmont Terrace. E il liceo continua a sfornare ogni anno tra i cinque e gli otto finalisti alle gare nazionali di cultura, anche se quando ero giovane io nell’elenco c’erano diversi ebrei, mentre ora sembra che siano stati sostituiti dagli asiatici.
Svoltammo in Monroe Avenue, passando davanti alla villetta a piani sfalsati dove sono cresciuto. Verniciata di bianco con le imposte nere, la casa dei miei genitori, anche se un po’ trascurata, non si distingueva da quelle tutte uguali dell’isolato: salendo tre gradini a sinistra si entrava nella zona cucina-soggiorno-sala da pranzo, scendendo due gradini a destra si accedeva alla cantinetta e al garage. L’unico particolare che la distingueva dalle altre era la rampa per la sedia a rotelle. L’avevamo messa all’epoca del terzo ictus di mio padre, quando avevo dodici anni. Con i miei amici la usavamo per lo skateboard, e al termine della rampa avevamo sistemato una specie di trampolino con un blocco di calcestruzzo ricoperto di compensato.
Sul vialetto c’era l’auto dell’infermiera. Viene di giorno, non l’abbiamo trovata a tempo pieno. Mio padre è costretto su una sedia a rotelle ormai da più di vent’anni. Non può parlare, il lato sinistro della bocca ha una brutta piega verso il basso, una metà del corpo è paralizzata e l’altra non se la passa molto meglio.
Quando l’autista girò all’altezza di Darby Terrace vidi che casa mia, casa nostra, non era cambiata rispetto a qualche settimana fa. Non so nemmeno io che cosa mi aspettassi di trovare, forse le strisce di plastica che di solito mette la polizia. Oppure una grossa macchia di sangue. Invece nulla lasciava immaginare ciò che era accaduto due settimane prima.
La nostra casa, quando la comprammo, era di una banca che l’aveva tolta al proprietario perché non poteva più pagare il mutuo. Per trentasei anni era stata la casa della famiglia Levinsky, ma nessuno poteva dire di conoscerli veramente. La signora Levinsky era una donna all’apparenza dolce, con un tic facciale. Il signor Levinsky era una specie di orco che alzava sempre la voce con la moglie, in giardino. Ci metteva paura. Un giorno vedemmo la signora uscire di corsa in camicia da notte, inseguita dal marito armato di badile. Noi ragazzini attraversavamo il giardino di tutti tranne quello dei Levinsky. Avevo appena terminato il college quando prese a girare la voce che il signor Levinsky aveva abusato della figlia Dina, una poveretta dallo sguardo triste e i capelli stopposi che era stata mia compagna di scuola fin dalla prima elementare. Ripensandoci, direi che sono stato a scuola con lei dodici anni e non ricordo di averla mai sentita parlare a voce più alta di un sussurro, e soltanto se costretta da insegnanti animati dalle migliori intenzioni. Non ho mai cercato di dare una mano a Dina: non so che cosa avrei potuto fare, ma ora mi pento di non averci nemmeno provato.
Avevo appena lasciato il college quando cominciarono a girare quelle voci sulle particolari attenzioni del signor Levinsky per la figlia, e poco dopo la famiglia fece i bagagli e traslocò, ma nessuno seppe mai dove. La banca si prese la casa e cominciò ad affittarla, io e Monica facemmo un’offerta poche settimane prima che nascesse Tara.
Nei primi tempi, dopo che ci fummo trasferiti in quella casa, rimanevo sveglio la notte ad ascoltare non so bene che cosa, forse gli echi del passato e dell’infelicità che regnava tra quelle mura. Cercavo di indovinare quale potesse essere stata la camera di Dina, di immaginare che cos’avesse provato allora e che cosa stesse provando adesso. Ma non avevo alcuna indicazione. Come dicevo, una casa è soltanto calce e mattoni. Null’altro.
Di fronte alla mia abitazione sostavano due auto che non avevo mai visto, e mia madre era in piedi davanti alla porta d’ingresso. Quando scesi, si precipitò verso di me e mi sembrò di rivedere le immagini trasmesse dalla televisione delle madri che corrono ad abbracciare i figli prigionieri di guerra che fanno ritorno a casa. Mi strinse forte e io fui investito da una zaffata di profumo. Stringevo ancora il borsone della Nike con i soldi e mi fu quindi difficile ricambiare l’abbraccio.
Alle spalle di mia madre vidi uscire di casa il detective Regan, insieme con un tipo nero e grosso, con il cranio rasato e luccicante e un paio di occhiali da sole griffati. «Ti stanno aspettando» mi sussurrò mamma.
Le feci un cenno con il capo e mi avvicinai ai due. Regan si portò una mano davanti agli occhi, ma solo per fare scena perché non c’era poi tutto quel sole. Il nero non mosse un muscolo.
«Dov’è stato?» mi chiese Regan. «Ha lasciato l’ospedale più di un’ora fa.»
Pensai al cellulare che avevo in tasca e al borsone pieno di soldi che tenevo in mano. E optai per la semiverità. «Sono andato sulla tomba di mia moglie.»
«Dobbiamo parlare, Marc.»
«Entrate.»
Entrammo tutti e mi fermai nell’atrio. Il cadavere di Monica era stato trovato a meno di tre metri dal punto in cui mi trovavo in quel momento. Feci scorrere lo sguardo sulle pareti, in cerca di qualche segno di violenza. Ce n’era soltanto uno, e lo notai quasi subito. Era il foro dell’unico proiettile che non aveva colpito né me né Monica, sopra la litografia di Behrens accanto alla scala: non vidi materialmente il foro, ma capii che era in quel punto perché vi era stato spalmato sopra dello stucco, troppo bianco per quella parete. Era necessaria una mano di vernice.
Rimasi a guardarlo a lungo. Udii qualcuno schiarirsi la gola e questo fu sufficiente a riportarmi alla realtà. Mia madre mi carezzò la schiena e si ritirò in cucina, io precedetti in soggiorno Regan e il suo amico e li feci accomodare su due sedie, sistemandomi poi sul divano. Non l’avevamo ancora completamente arredata, quella casa. Le sedie erano quelle della mia stanza al dormitorio del college, e si vedeva. Il divano veniva da casa di Monica ed era un po’ troppo impegnativo anche se ridotto male, faceva pensare cioè a un mobile tenuto in uno sgabuzzino a Versailles. Era pesante e rigido, e anche ai tempi del suo massimo splendore doveva essere stato poco imbottito.
«Le presento l’agente speciale Lloyd Tickner» fece Regan, indicandomi il nero. «È dell’FBI.»
Tickner mi fece un cenno con il capo e io ricambiai.
Regan tentò di sorridermi. «Mi fa piacere vedere che sta meglio» esordì.
«Non sto meglio.»
Mi guardò sconcertato.
«Non starò meglio fino a quando non riavrò mia figlia.»
«Certo, è naturale. A questo proposito avremmo delle altre domande, se non le dispiace.»
Gli dissi che non mi dispiaceva.
Regan tossì dentro il pugno per prendere tempo. «Deve capire che dobbiamo farle queste domande, che non è che mi diverta a farlo e di certo non piaceranno nemmeno a lei; ma sono domande che vanno fatte. Capisce?»