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Il roveto ardente sparì, e sulle lastre fredde c’erano due rozzi archi con le frecce e una pistola ad acqua. Raccolsi un arco. Inutile.

Nimdok deglutì pesantemente. Ci voltammo e ci avviammo per la lunga via del ritorno. L’uccello dell’uragano ci aveva sospinto per un tempo che non potevamo concepire. Per quasi tutto quel tempo, eravamo rimasti privi di sensi. E non avevamo mangiato. Un mese di marcia per raggiungere l’uccello. Senza mangiare. Adesso, quanto altro tempo ancora per trovare la strada che portava alle caverne dei ghiacci, ai cibi in scatola promessi?

Nessuno di noi voleva pensarci. Non volevamo morire. Avremmo ricevuto per cibo schifezze e sozzure. O niente del tutto. AM avrebbe tenuto in vita i nostri corpi in un modo o nell’altro, tra le sofferenze.

L’uccello dormiva lassù; per quanto, non aveva importanza; quando AM si fosse stancato di lasciarlo lì, sarebbe svanito. Ma tutta quella carne. Tutta quella carne tenera.

Mentre camminavamo, la risata demente di una donna grassa echeggiò altissima intorno a noi, nelle camere del computer, che continuavano, all’infinito, a non portare da nessuna parte.

Non era la risata di Ellen. Lei non era grassa, e non l’avevo udita ridere in quei centonove anni. Anzi, non avevo udito… camminavamo… avevo fame…

Ci muovevamo lentamente. Spesso qualcuno sveniva, e bisognava aspettare. Un giorno decidemmo di causare un terremoto, radicandoci sul posto con chiodi piantati attraverso le suole delle scarpe. Ellen e Nimdok ci rimasero quando una crepa si aprì fulmineamente nelle lastre del pavimento. Sparirono. Quando il terremoto ebbe termine, continuammo per la nostra strada, io, Benny e Gorrister. Ellen e Nimdok ci furono resi più tardi, quella notte che divenne giorno all’improvviso quando una legione di angeli li portò a noi al canto di un coro celestiale, «Scendi Mosè». Gli arcangeli ci volteggiarono intorno parecchie volte e poi lasciarono cadere i corpi orrendamente straziati. Continuammo a camminare, e dopo un po’, Ellen e Nimdok si accodarono a noi. Non erano ridotti peggio del solito.

Ma adesso Ellen zoppicava. AM quello glielo aveva lasciato.

Era un lungo viaggio per arrivare alle caverne del ghiaccio, per trovare i cibi in scatola. Ellen continuava a parlare di ciliegie Bing e di cocktail di frutta hawaiana. Io cercavo di non pensarci. La fame era qualcosa che aveva preso vita, come aveva preso vita AM. Era viva nel mio ventre, come noi eravamo vivi nel ventre di AM, e AM era vivo nel ventre della Terra, e AM voleva che noi capissimo quella somiglianza. Perciò accrebbe la fame. Era impossibile descrivere le sofferenze che ci dava il non aver mangiato per mesi. Eppure restavamo vivi. Stomaci che erano solo calderoni di acido, e gorgogliavano e schiumavano, e lanciavano fitte di dolore lancinante nei nostri petti. Era il dolore dell’ulcera terminale, del cancro terminale, della paresi terminale. Era una sofferenza interminabile…

E attraversammo la caverna dei ratti.

E attraversammo il sentiero del vapore bollente.

E attraversammo il paese dei ciechi.

E attraversammo l’abisso dell’avvilimento.

E attraversammo la valle di lacrime.

E giungemmo, finalmente, alle caverne del ghiaccio. Migliaia di miglia senza orizzonte, dove il ghiaccio si era formato in lampi azzurri e argento, dove le novae vivevano nel vetro. Le stalattiti pendule, grandi e splendenti come diamanti che fossero stati disciolti come gelatina e poi solidificati in eleganti eternità di liscia, aguzza perfezione.

Vedemmo il mucchio di cibi in scatola, e cercammo di correre a prenderli. Cademmo nella neve, e ci alzammo e continuammo a correre, e Benny ci spinse via e andò a prenderli, e li toccò e li morse e li addentò ma non riuscì ad aprire le scatole. AM non ci aveva dato un utensile per aprirle.

Benny afferrò un barattolo di noci di guava da tre quarti, e cominciò a sbatterlo contro il banco di ghiaccio. Il ghiaccio si scheggiò e volò via, ma la scatola era appena ammaccata quando udimmo la risata d’una donna grassa, lassù in alto, che scendeva echeggiando giù e giù e giù nella tundra. Benny impazzì completamente per la rabbia. Cominciò a scagliare i barattoli, mentre tutti noi ci dibattevamo sulla neve e sul ghiaccio, cercando di trovare un modo per porre fine alla tortura della frustrazione. Non c’era nessun modo.

Poi Benny cominciò a sbavare, e si avventò su Gorrister…

In quell’istante, divenni terribilmente calmo.

Circondato dalle pasture, circondato dalla fame, circondato da tutto, tranne che dalla morte, sapevo che la morte era la nostra unica via d’uscita. AM ci aveva tenuto in vita, ma c’era un modo per sconfiggerlo. Non una sconfitta totale, ma almeno la pace. Mi sarei accontentato.

Dovevo farlo, in fretta.

Benny stava divorando la faccia di Gorrister. Gorrister giaceva sul fianco, e spruzzava la neve tutto intorno, e Benny gli stava attorcigliato addosso, schiacciando con le poderose gambe da scimmione i fianchi di Gorrister, le mani strette intorno alla testa di Gorrister come uno schiaccianoci, e la bocca strappava la pelle tenera della guancia di Gorrister. Gorrister urlò con una tale violenza che molte stalattiti caddero; piombarono giù, erette, infilandosi nei mucchi di neve che le accolsero. Lance, a centinaia, dovunque, che sporgevano dalla neve. La testa di Benny scattò all’indietro bruscamente, quando qualcosa cedette all’improvviso, e dai denti gli pendeva un brandello bianco di carne sanguinante.

Il volto di Ellen, nero contro lo sfondo della neve bianca, un domino sulla polvere di gesso, Nimdok con la faccia inespressiva e tutto occhi. Gorrister, semisvenuto. Benny ormai trasformato in un animale. Sapevo che AM lo avrebbe lasciato giocare. Gorrister non sarebbe morto, ma Benny si sarebbe riempito lo stomaco. Mi voltai verso destra e strappai dalla neve un’enorme lancia di ghiaccio.

Tutto in un istante.

Protesi il grande puntale di ghiaccio davanti a me, come un ariete, tenendolo puntellato contro la coscia destra. Colpì Benny al fianco destro, sotto la cassa toracica, e affondò dal basso in alto, attraverso lo stomaco, gli si spezzò dentro. Benny crollò in avanti e restò immobile. Gorrister era disteso sul dorso. Afferrai un’altra lancia e gli salii addosso a cavalcioni, mentre si muoveva ancora, piantandogli la lancia nella gola. I suoi occhi si chiusero mentre il freddo penetrava. Ellen doveva aver capito cosa avevo deciso ci fare, mentre la paura l’afferrava. Corse verso Nimdok impugnando un corto ghiacciolo, e mentre lui urlava glielo piantò nella bocca, e la forza del colpo ottenne lo scopo voluto. La testa di Nimdok sussultò bruscamente, come se fosse stata inchiodata alla crosta di neve che stava dietro di lui.

Tutto in un istante.

Vi fu un battito eterno di silenziosa anticipazione. Potei udire AM che tratteneva il respiro. I suoi giocattoli gli erano stati sottratti. Tre erano morti, non era possibile risuscitarli. Poteva tenere in vita noi, con la sua forza e il suo genio, ma non era Dio. Non poteva farli risorgere.

Ellen mi guardò, il volto d’ebano che spiccava nitidamente contro la neve che ci circondava. C’era paura e supplica nel suo atteggiamento, nel modo in cui si teneva pronta. Sapevo che avevamo a disposizione solo un battito di cuore, prima che AM ci fermasse.

La colpii, e lei si accasciò verso di me, sanguinando dalla bocca. Non riuscii a leggere il significato nella sua espressione, il dolore era stato troppo forte, le aveva sfigurato il volto: ma poteva essere stato un grazie. È possibile. Fai che sia così.