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Presi la mira. Lì non c’erano i facili segni magnetizzati, ma lo slancio con cui partì il dente dello scalpello per poco non mi strappò via il braccio. E mi accorsi che ero passata adirittura dall’altra parte. Beh, voglio dire, era questo che avevo avuto intenzione di fare, no? Coraggio! Tentai ancora e questa volta poco mancò che passassi anch’io attraverso il blocco, trascinata dallo scalpello. Mi ributtai all’indietro i capelli e riprovai ancora, e riuscii a congiungere i due buchi con un arco sottile e slanciato. Qualcosa ero riuscita a combinare.

Scalpellai e raschiai per millenni, mentre le schegge volavano nei cestini magnetizzati, e presto mi trovai a strisciare dentro le cavità, a trapanare e a colpire violentemente. Era molto intricato e a me piaceva, e quasi non badavo più agli occhi che mi stavano sbirciando.

All’improvviso, qualcuno mi afferrò i capelli, in una torsione torturante. Imprecai energicamente, fino a quando mi accorsi che non era stato nessuno. I miei capelli scarlatti si erano impigliati nella trina marmorea. Il Q-R dovette scendere, con la solita pazienza, per districarmi, e dopo quella dovette scendere molte altre volte.

«Oh, prendi qualcosa per tagliare,» scattai quando finalmente mi trovai appesa in un grande varco ovale, in una sorta di frenetica ragnatela di capelli, in cui fremevano milioni di schegge di pietra. I miei capelli diventarono sempre più corti e, quando si ridussero lunghi solo fino alle ginocchia, decisi di averne avuto abbastanza e uscii fuori prima di diventare calva.

C’erano enormi barattoli di colore dalle tinte splendide, intorno all’area dove lavoravo, e cominciai a intingere nell’uno e nell’altro, soddisfatta. Anch’io cominciai a cambiare colore. I miei capelli erano diventati rosa platino, e avevo il naso color verde veronese. Giocai con i colori per creare illusioni, dipingendo i recessi in ombra a toni vividi e luminosi, e i piani sporgenti a cremisi e violetti tonanti, conducendo il motivo d’una linea ininterrotta attraverso vari angoli, e facendo apparire e sparire nella pietra vortici che parevano di fuoco.

Saltammo innumerevoli pasti, il mio pubblico ed io. Ormai era pomeriggio inoltrato.

Poi feci qualche passo indietro e mi passai la mano sulla fronte, dimenticando che mi sarei sporcata ancora di colore. Comunque non m’importava. Ero fierissima. Mi pareva già di vedere la mia opera, sistemata nei Giardini del Sole al Quarto Settore, o messa ad abbellire qualche marciapiedi di vetro lungo una via d’acqua, dolcemente riflessa nella corrente. Ma non avevo notato le minuscole crepe nei punti in cui il dente dello scalpello era slittato leggermente, il lieve squilibrio, il fatto che una parte era un poco più pesante dell’altra.

Mi avvicinai e posai la mano sulla sommità, una specie di affettuosa carezza sulla testa della mia incantevole bestiola di pietra. Nell’istante in cui la toccai, emise un suono spaventoso e tutto quanto, sbavando colore non cementato, crollò lentamente, con lurida implacabilità, fino a ridursi un mucchio di pietrisco.

Mi tirarono fuori.

Il Q-R sorrise.

«È sempre opportuno,» disse, «chiedere il consiglio del computer, in queste cose.»

«V…n il computer!» esclamai: e in silenzio scandalizzato, il Q-R mi trascinò via.

8.

Fu molto gentile, davvero. Non mi disse di non stare lì seduta a rimuginare, mentre stavo seduta a rimuginare.

Facemmo un pasto per iniezione a testa, e pagò lui, ma non credo che lo facesse tanto per cavalleria. I Q-R trovano maggiore facilità a farlo, poiché i circuiti relativi li hanno incorporati. Poi svolazzammo un po’ in giro e vedemmo centinaia di persone annoiate che facevano i supervisori del Flusso dell’Acqua, del Traffico Aereo, della Pianificazione Alimentare, e così via. Non avevano da fare altro che premere pulsanti e girare manopole, che del resto si premevano e si giravano da soli. Cominciò a farsi buio, e il quasi-robot disse che quello era tutto, a parte il Centro Ideazione della Quadrovisione, e io lo agguantai e gli dissi che volevo vederlo, perciò andammo anche là. Credo che il mio entusiasmo fosse semplicemente un riflesso. Tanto, avrei trovato ancora macchinari e computer come altrove, no?

È un grande edificio a cupola, con quadrovisioni di figure enormi, gigantesche, che si muovono in atteggiamenti erotici e via di seguito.

Entrammo, e salimmo e scendemmo per corridoi illuminati dolcemente da luci dorate, fumosi d’incenso, con grandi fiamme metalliche che si attorcevano sul soffitto, e vedemmo una quantità di stanzini chiusi, dove gli Ideatori, tutti soli, erano al lavoro. Non eravamo autorizzati a entrare e a disturbarli: ma potevi innestare un piccolo apparecchio e avere un riassunto completo di quel che succedeva. E quel che facevano quegli individui, in realtà, usciva proprio dalle loro menti. Si servivano di macchinari per i riferimenti, per esempio per accertarsi che una data sequenza non stridesse con un’altra, trasmessa dieci split prima, o non le somigliasse troppo. E manovravano personalmente i comandi per formare le immagini che volevano sul grande schermo a soffitto.

Ma le idee erano abbastanza monotone: danze, abbracci e amplessi, il tutto pieno di fiori e di capelli svolazzanti. Affascinante, ma banale. Una sfida.

«Eccolo,» dissi io.

«Cosa?» chiese il Q-R.

«Il lavoro che voglio fare,» dissi. «Cioè, sono proprio loro a farlo, vero?»

Il quasi-robot mi sembrò un po’ turbato, appena appena, ma disse che avrebbe cercato di trovarmi uno stanzino libero per provare, se volevo. Io volevo. Il Q-R si avviò lungo il corridoio, mentre io ronzavo intorno ai piccoli ufficetti lindi, sbirciando all’interno e spaventando probabilmente coloro che c’erano dentro, con i miei capelli striati di vernice e il naso verde, che avevo temporaneamente dimenticato.

Una spirale scese turbinando all’improvviso accanto a me e mi invitò a salire, e io salii, tra membra in movimento e corpi fioriti, in un altro corridoio, dove un messaggero a strisce gaiamente colorate mi fece accomodare nel mio minuscolo campo giochi, con il mio piccolo banco dei comandi e il mio piccolo grande schermo.

Dovetti effettivamente chiedere alla macchina come funzionava la baracca, ma in realtà era molto semplice. E volevano simbolismo, no, ed emozioni? Benissimo. Devo ammettere, comunque, che mi basai un po’ sulla Distorsione dei Sensi, anche se sul momento non me ne resi conto.

Cominciai con una ragazza dai capelli d’oro che passeggiava in una foresta soleggiata di piante mobili, e dopo un po’, le piante diventarono maschi. In principio solo leggermente, ma presto cominciò a capirsi benissimo. Erano bellissimi, con le gambe lunghe, veramente groshing, ma ancora imprigionati nei tronchi degli alberi, e si capiva che li vedevi attraverso gli occhi della ragazza, e lei in realtà immaginava che fossero maschi. Poi diventò veramente strano. Si vedeva che, mentre lei guardava gli alberi come se fossero stati uomini, gli alberi la guardavano come un’altra pianta, una specie di fiore fantastico dal lungo stelo, con le braccia come lunghe foglie, i capelli come una raggera di enormi petali dorati, che non camminava più, dondolava dolcemente in mezzo a loro. Allora cominciarono a tendersi verso di lei, prima uno alla volta, poi tutti insieme, agitando tralci che diventavano braccia, e con movimenti delle gambe muscolose che ritornavano radici frementi. Suppongo che fosse una licenza poetica, immaginare che la foresta fosse così affamata di sesso da diventare completamente zaradann per quel fiorellino fragile, ma non aveva importanza. Comunque, la lotta finiva, e il vincitore era un albero scuro, o un maschio dalla pelle scura e dai lunghi capelli neri. Si muoveva seguendo la ragazza-fiore; e cominciava una specie di danza fatta di fughe e di avvicinamenti, e finalmente facevano l’amore, aggrovigliati tra petali e foglie e rami, il che era bello e strano, più che erotico: comunque, io ne ero soddisfatta.