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«Ci siamo,» disse il Glar. grandiosamente, come se avesse inventato tutto lui. «Venite.» E noi marciammo dietro dì lui sulla sabbia inondata dall’alba sanguigna e luminosa.

Assule indicò una piattaforma di roccia e alcune terrazze di roccia che vi salivano.

«Ecco il posto,» annunciò.

«Ed ecco il sole,» mormorai io.

Il bestiolino perse di colpo la testa, o la ritrovò, e schizzò via dal mio fianco per andare a rotolarsi in quella sabbia pazza, spruzzando tutti quanti.

«Oh, fermalo! Ferma quel mostriciattolo!» strillarono le femmine.

Il Glar non se ne accorse neppure.

Avanzava in testa, a grandi passi, seguito dai robot e dal macchinario, scavando grandi rivoli nella sabbia, dove noi dovevamo camminare.

Il sito aveva presumibilmente qualcosa a che fare con i nomadi e cose del genere: una cittadella primitiva di roccia, dove quelli si fermavano di tanto in tanto. E quelle erano le fondamenta. Assule riteneva che fossero state coperte dalla sabbia secoli prima; poi qualche tempesta l’aveva spazzata via. Tra poco avrebbe piovuto, disse, e allora avremmo dovuto tornare in fretta alla nave per ripararci. A quanto pareva, quelle erano piogge che bagnavano.

La terza femmina continuava a sentirsi svenire e ad appoggiarsi ad Assule perché non aveva imparato la tecnica per respirare. Le altre erano furiose di non aver avuto quell’idea prima di lei.

Facemmo il primo pasto sul sito, seduti su pesanti tappeti. Assule continuò a parlare della civiltà che un tempo era sorta lì. Avrebbe potuto essere molto interessante, se non fosse riuscito a renderlo così noioso. Non so come ci riuscisse, in effetti. Forse aveva un talento innato per far diventare tutti droad, suppongo.

Poi cominciò ad aggirarsi per il sito, scomparendo e ricomparendo dietro le guglie di roccia, con sei robot, che l’assistevano. Noi restammo sedute sui tappeti, e intorno a noi il mondo diventò turchese.

Alla fine tornò indietro.

Mi raddrizzai e attesi che mi consegnasse un antico piccone o qualcosa del genere, ma non lo fece. Disse:

«Credo che avvierò le macchine sei e otto, lassù.» E il mio cuore rotolò per la scala delle costole, fino allo stomaco, e restò lì, in tempesta. C’eravamo di nuovo: Consultare sempre il computer… La macchina sa cosa fare… Oh, tanto scattano automaticamente dopo mezzo split…

«Ma, Glar,» sbottai, «non dobbiamo fare qualcosa anche noi?»

«Cosa?» Era sinceramente scandalizzato. «No, naturalmente.»

«Ma non possiamo neppure togliere la sabbia dalle reliquie con il pennello, quando vengono fuori?» implorai: ero molto ottimista sulla possibilità di trovare le reliquie, devo dire.

«No di certo,» disse lui. «Potreste danneggiare qualcosa.»

Le tre femmine svolazzarono per dichiararsi d’accordo e mi guardarono come se fosse un’oscenità già la sola idea di avvicinare le mie goffe mani di Jang a qualcosa di tanto prezioso. Quindi Assule ci voleva lì semplicemente per avere un pubblico per la sua vecchia voce noiosa.

E per tutto quell’unit così derisann nel deserto, mi aggirai tra le macchine, con il bestiolino alle calcagna. Le macchine trapanavano e scavavano e non trovavano niente. Salirono ronzando sulle terrazze e il risultato fu uno zero totale.

«Senza alcun dubbio, sono fondamenta,» borbottava continuamente Assule, fino a quando cominciai a provare un senso di pena per il suo imbarazzo.

5.

Continuò così, unit per unit. Un avioplano con i finestrini coperti arrivò da Quattro BEE per portarci i rifornimenti. Le femmine cogitavano imbronciate. Assule si era rivelato inespugnabile, e adesso loro erano stufe delle sue idee.

E poi, una sera, quando lui stava per diventare zaradann per la frustrazione, una delle macchine lanciò un gran fischio e diede uno strattone, e il pavimento roccioso cedette, e fra tonfi e scrosci e rombi, crollò su un’immensa camera sotterranea. Quando la sabbia e la ghiaia ricaddero, ci avvicinammo e constatammo che avevamo scoperto un magazzino, o qualcosa di simile. Almeno, Assule diceva così, anche se non credo che lo sapesse di preciso, e tirasse a indovinare.

Le macchine calarono altre macchine nella cavità per trasmetterci immagini dell’interno, ed erano poco esaltanti. La ricerca durò millenni, e alla fine disseppellirono soltanto un unico coccio di antica ceramica che, secondo il Glar, non era infrangibile. Perciò non ci permise di avvicinarci, e i robot lo portarono alla nave per esaminarlo.

Era molto tardi quando Assule si precipitò ululando nel salone, balbettando qualcosa a proposito di un’iscrizione.

«È un vecchio proverbio del deserto,» gracchiò, aggrappandosi ad una delle femmine, per reggersi in piedi. Era raggiante. «Sì, sì, è vero. Si riesce a scorgere appena. Guardate la riproduzione tridimensionale che ne ha fatto la macchina numero nove.»

«Cosa dice?» domandammo. Era inintelligibile e confusa, e in un’altra lingua, anche se una o due parole sembravano vagamente familiari, qua e lì.

«Ah,» disse il Glar. Si sedette e ci tenne un’altra conferenza sui popoli nomadi, prima di spiegare. L’iscrizione diceva:

NON MORDERE IL SOLE, VIAGGIATORE
O TI BRUCERAI LA BOCCA.

Secondo Assule, era un modo per dire che bisognava restare all’ombra, quand’era possibile, portare l’oosha (una specie di copricapo dell’uomo del deserto) e provvedersi di un’adeguata scorta d’acqua. In altre parole, il sole è un nemico pericoloso: non correre rischi, o sarà peggio per te.

Ma per me, quelle parole avevano anche un altro significato. Mi ossessionarono per tutta la notte, e non riuscii a dormire. Andai a sedermi nella Torre Trasparente, e mi ossessionarono anche lì.

Non mordere il sole, non mordere il sole… la mia bocca bruciava.

6.

La mattina dopo Assule stava molto meglio, o molto peggio, a seconda dei punti di vista. La sua sicurezza era ritornata. Correva in giro a pavoneggiarsi, e si concesse persino di dimostrare una parvenza d’interesse verso una delle tre femmine. Era abbastanza divertente, vedere lei che cercava di attirarlo in qualche grotta, mentre lui voleva soltanto parlarle della tribù terribilmente antica di uomini che avevano l’abitudine di mangiarsi tra di loro, cerimonialmente, è ovvio, quando i branchi di ponka scarseggiavano.

«E adesso che abbiamo incominciato,» si degnò di dirmi mentre mangiavamo il terzo pasto, «troveremo strati di ogni genere, senza dubbio. Le armerie, per esempio.»

Oh, questo poteva essere davvero interessante.

Beh, poteva.

Voglio dire, io ho sempre avuto una passione per le rovine e le cittadelle e le armi e i draghi e gli intrighi esotici e via discorrendo, ma presto Assule ci diede le stesse sensazioni che ci avrebbe dato ascoltarlo parlare della riprogrammazione di uno dei suoi pavimenti mobili.

Comunque, le macchine continuavano a scavare e a rivoltare e a sfondare, e non trovarono assolutamente nulla. Una volta tanto si sentiva qualche «bum», e noi accorrevamo per vedere che cos’era, ma si trattava semplicemente di qualche scarica d’energia.

Quel posto cominciò a darmi la claustrofobia, e avrei voluto correre nel deserto come continuava a fare il bestiolino, ma soffrivo anche di un po’ d’agorafobia, e non ne feci niente. Pensai che il bestiolino potesse fuggire e abbandonarmi per il suo elemento natio, ma tornava sempre da me. Mi abituai a vederlo correre tra i picchi rocciosi e le dune, sporco di sabbia, barrire e sternutire felice e poi balzarmi tra le braccia, gettando sabbia in tutte le direzioni.