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E il sito degli scavi era drumdik. Un caos squallido, inqualificabile. Una volta tanto io e le femmine ci alleammo per evitare che Assule diventasse completamente zaradann. Non servì a molto, comunque. Si aggirò ruggendo fra le torrette di roccia, sfiorando il miele e i tappeti masticati sulle macchine, stringendo i robot sfasciati, e urlando ai robot intatti di aggiustare tutto. In effetti, quando smise di star loro fra i piedi, i robot venuti dalla nave se la cavarono benissimo. La macchina numero otto fu l’unica perdita, e dovettero smantellarla.

«Per impedire altre calamità, ordinerò ai robot di montare una muraglia elettrica tutto intorno al sito degli scavi,» mi disse Assule, tra il baccano e i tonfi. «Intorno agli scavi e alla nave. Un raggio di circa…» E citò un’area molto vasta. Io l’ascoltavo appena.

«Senti, Assule,» dissi, «adesso abbiamo l’occasione di dimostrare che siamo meglio delle macchine.»

«Cosa?»

«No, ascolta,» insistetti, ignorando la sua indignazione inorridita, «mentre loro sono fuori causa, cerchiamo almeno di trovare qualcosa noi.»

«No di certo,» disse Assule. «Te l’ho detto, le macchine se la cavano meglio.»

«Beh,» dissi io, «non sembra che abbiano trovato molto, fino ad ora.»

«Non dimenticare il frammento di ceramica con l’iscrizione. Certo senza dubbio tu pensi che sia poco, secondo la tua ignorante mentalità di Jang.»

«Senti,» dissi io, «sono interessata quanto te, sinceramente, ma quella macchina è piombata per puro caso in quel tuo magazzino, o quello che è. Avrebbe potuto fracassare e seppellire reperti preziosi di ogni genere, se ve ne fossero stati altri come quello che abbiamo trovato.»

«Questo tuo atteggiamento è offensivo,» tuonò Assule. Era come parlare a un muro.

«Parlare con te è come parlare a un muro,» dissi.

Assule diventò pomposo.

«Devi chiedermi scusa,» mi disse.

«Oh, santo cielo!» esclamai. «Non intendo scusarmi per avere detto la verità. E dacché ci siamo, ritiro le scuse dell’altra volta.»

E poi mi arrabbiai sul serio e tornai a fargli quel segno Jang.

Senza aspettare di vederlo andare in combustione automatica, girai su me stessa, piantando persino la mia ape, e me ne andai.

Via dal sito degli scavi.

Via dalla nave delle sabbie.

Nel deserto.

7.

Avevo sentito dire che qualcuno lo aveva fatto, andarsene in preda al furore senza sapere quel che faceva. Thinta mi aveva detto che una volta l’avevo fatta tanto infuriare, con il mio vizio di rubare, che era caduta nella piscina senza prendere l’ossigeno, ed era finita diritta al Limbo.

Quando me ne resi conto, mi accorsi che non sapevo dov’ero, non sapevo niente di niente. Non c’era più traccia del sito degli scavi o della nave, né il suono dei rumorosi lavori di riparazione che erano ancora in corso quando me ne ero andata. C’era soltanto sabbia e sabbia scintillante, e un orizzonte di picchi neri e di tramonto incombente. Provai un momento di panico assoluto, gelido. Ero perduta. Poi provai un secondo momento di panico gelido e assoluto. L’ossigeno! Quella mattina avevo preso le solite quattro compresse, che mi sarebbero durate fino all’indomani. Ma poi? Oh, mi ero messa in una bella situazione.

Poi mi venne un’idea. Tornare indietro e seguire le mie orme a ritroso sulla sabbia: ecco cosa avrei fatto. E lo feci, e cominciavo già a sentirmi euforica quando all’improvviso mi imbattei in un refolo d’aria fresca. Vi sono sempre lievi venti delle sabbie, e quello s’era dato da fare per perdermi. Mi arrampicai su di una guglia di roccia e mi guardai intorno in tutte le direzioni, ma non vidi altro che lo scintillio dell’arcobaleno, sulle dune lisce e prive di tracce.

E poi vidi qualcosa, qualcosa che si muoveva. Oh, no, pensai, ansimando, i piedi-a-sci mi inseguono. Mi chiesi a quale morte orrenda mi avrebbero condannata. Poi vidi che era una cosa sola, e molto, molto più piccola di un piede-a-sci, e sfrecciava verso di me attraverso il deserto senza volto. Il bestiolino! Meraviglioso! Doveva avermi seguito, lasciando la sua traccia di orme fresche, che ci avrebbe ricondotti alla nave. Strillando e barrendo, ci lanciammo una verso l’altro. Il bestiolino mi balzò tra le braccia e mi baciò appassionatamente sul naso e sulle orecchie.

«Oh, ooma,» ansimai, «bravo, derisann ooma!»

E tenendomelo ben stretto, peloso e consolatore, mi avviai lungo la traccia.

E proprio allora, naturalmente, doveva incominciare la tempesta di sabbia, no?

Ero così spaventata. Non si vedeva niente, non si poteva respirare. Mi sfilai la tunica trasparente e me l’avvolsi attorno alla faccia. In quel modo riuscivo a intravvedere qualcosa tra i ricami e la sabbia, e potevo respirare leggermente; con le compresse d’ossigeno, era abbastanza. Tentai di proteggere il bestiolino, ma lui mi si rannicchiò contro la pelle: sembrava a suo agio. Immagino che avesse affrontato altre tempeste di sabbia. Gonfiò tutto il pelo, per proteggersi. Era inutile andare avanti e, inoltre, la sabbia mi pungeva la pelle nuda: perciò mi misi al riparo della roccia più vicina, mi rannicchiai sulla sabbia e attesi.

Non dimenticherò mai il suono di quel vento carico di sabbia. Credo che lo sentirò per tutta la vita.

Alla fine la visibilità migliorò e mi tirai fuori. Ci fermammo lì, a guardarci intorno. Bene, se ero perduta prima, adesso lo ero ancora di più. Rimisi la tunica e cominciai a camminare senza meta. Ogni tanto ripetevo al bestiolino: «È inutile, a che serve?» e mi lasciavo cadere. E poi mi infuriavo con me stessa e dicevo: «Ma non troverò mai la nave se resto qui seduta, e potrei trovarla, se continuo a camminare.» E andavo avanti, fino a quando crollavo di nuovo.

C’era un gran buio e un gran silenzio. Non c’erano le stelle. E c’era quel colossale senso di attesa. Il bestiolino continuava ad alzare la testa e a fiutare l’aria.

Poi cominciarono i rombi, vicini eppure lontani. Mi chiesi, in preda a un confuso isterismo, se c’erano ancora draghi da quelle parti, o se i piedi-a-sci mostravano, di notte, una personalità nuova e particolarmente spaventosa. Ma in pratica era soltanto il tuono. E presto fu accompagnato da accecanti lampi verdi.

«La pioggia,» dissi al bestiolino, mentre il cuore mi scendeva alle ginocchia, ma lui era eccitato, e si divincolò fino a quando lo lasciai andare. Sfrecciò in giro e si rotolò nella sabbia.

«Bene, sono lieta che ti piaccia,» dissi.

Nei suoi bei tempi nel deserto, pensai, la pioggia era un grande evento: anche se non ne sapevo niente, avevo calcolato che accadesse solo ogni tre vrek, a giudicare da quel che aveva detto Assule.

Poi ci fu quel suono. Una specie di ticchettio sommesso, sommesso, come di minuscole zampe che battevano. Stavo pensando che era carino, disorientata com’ero, quando i cieli si aprirono e il deserto fu sommerso dall’acqua. La pioggia scrosciava e tuonava, ma ancora più forte era il coro di squittii e ululati e trilli eccitati che uscivano da milioni di piccole gole pelose, tutto intorno a me, nelle tane di sabbia e nei buchi della roccia, per celebrare il rito della pioggia. Nel diluvio era impossibile vedere lo scintillio degli occhi, ma io sapevo che c’erano. Il bestiolino prese in bocca una delle catenelle che portavo alle caviglie e, dolcemente ma con fermezza, mi trascinò in una specie di riparo tra le rocce. Un po’ tardi, comunque. Ero bagnata fradicia. Sono sicura che Quattro BEE potrebbe produrre stoffe impermeabili alla pioggia, ma là chi ne ha bisogno? L’unica pioggia è costituita da qualche goccia sparsa, dopo un sabotaggio dei Jang.