Il bestiolino barriva e barriva.
«Hai ragione tu,» dissi, tentando di asciugarmi la faccia bagnata con le mani bagnate. «È davvero bellissimo.»
Lo era davvero: l’acqua d’argento, il canto del deserto che beveva e beveva intorno a me. E dalle buche e dalle tane, veniva il canto della vita.
Non avrei mai pensato di riuscire a dormire con quel rumore e quel fastidio, ma dormii. Sognai che ero una donna del deserto, con un bambino, e finalmente avevamo trovato una fonte.
Mi svegliò l’alba, come una pallida nota verde di musica tra le montagne, e mi levai a sedere, infreddolita, bagnata fradicia, e sola.
Adesso morirò, pensai, qui fuori, senza quei simpatici robot che mi porterebbero al Limbo, morirò di freddo e di fame e di carenza d’ossigeno, e di solitudine. Il bestiolino se ne era andato. «La pioggia è cessata, comunque,» dissi, congratulandomi, mentre uscivo dal covo nella roccia e cominciavo a vedere.
E poi per poco non morii, ma non per una delle ragioni che avevo pensato: per quello che c’era là fuori.
Non avevo mai visto una simile bellezza inaspettata. Non potevo immaginare che le dune, assetate d’acqua per tanta parte della loro vita, potessero rendere un simile ringraziamento per quella che per loro doveva essere stata solo una mezza tazza. Mi inchinai, mentalmente, davanti a quel prodigio.
Il deserto era fiorito.
Pensai che le rocce fossero di nuovo in fiamme, ma era la fiamma dei fiori, le scintille dell’erica eruttata dal suolo. I cactus erano cresciuti enormemente durante la notte, sbocciando in piogge di orchidee verdi. Tra le rocce vi erano pozze, che forse già si stavano asciugando, ma affollate di felci, stellate di petali cresciuti in pochi secondi, liberati dalla pioggia in dieci split. E l’erba delle sabbie ondeggiava. Guardai e in lontananza, in ogni direzione, vidi il porpora e il verde e l’oro, il peridoto degli steli agitati, non seta o vetro o raso d’acciaio, ma piume vive, una verzura che respirava. E anch’io respirai, profondamente, lentamente, perché la vegetazione mi aveva salvato la vita, mi aveva dato, in una notte di miracoli e d’argento, tutto l’ossigeno di cui i miei polmoni potevano avere bisogno.
Avanzai, dapprima innervosita, timorosa di calpestare quel tappeto vivente, ma tutto intorno gli animaletti correvano, saltavano e banchettavano in quel verde. Vidi in lontananza una tribù di piedi-a-sci, che danzavano insieme una danza bizzarra, quasi spaventosa, di gioia primitiva. All’improvviso, ne fui parte. Io, con il mio marchio di essere umano, di Jang, di cittadina. Mi strappai le catenelle ridicole e gli abiti trasparenti, gli orecchini, gli ornamenti. Avrei potuto mettermi fiori veri tra i capelli, ma mi sembrava un sacrilegio coglierli. E poi, i miei capelli erano un manto scarlatto, e io corsi e risi e cantai con gli animaletti impazziti nella gloria del verde ridestato; era così caldo, adesso, ed io ero perfettamente asciutta.
Poi trovai il bestiolino.
Balzò verso di me, dall’erba, come un fiore pallido e puro.
Adesso quasi non ricordo le risa e le corse, e i giochi e le danze: ma ricordo la felicità, la felicità simile ad una ferita che sanguina la scintilla vitale.
Oh, corremmo fianco a fianco, il bestiolino ed io, e non ho mai conosciuto un’eguale vicinanza con qualcuno della mia razza umana, come la sentivo con quell’animale bianco che avevo rubato, per un bisogno casuale e nevrotico, in un negozio di Quattro BEE.
Una volta, mentre eravamo distesi sull’erba, gli dissi:
«Devi avere un nome; no, no, devi averlo. Tu sei una personalità, come me, un essere, una vita.» E chiamai il bestiolino Fiordituono, per via dei fiori intorno a noi, cresciuti dalla pioggia e dai lampi e dal tuono. E poi riprendemmo a correre.
E come sarebbe stato semplice, se non avessimo mai trovato la via per ritornare alla nave delle sabbie. Ma la trovammo. Notai appena la vaga familiarità del paesaggio. Le terrazze rocciose, adesso, erano accese di fiori, nel rosseggiare del crepuscolo.
Continuammo a correre, fianco a fianco. Talvolta io ero un po’ più avanti, tra l’erba delle dune che mi arrivava al ginocchio, talvolta era il bestiolino, con la testa che superava appena il verde, la pelliccia arrossata dal riflesso del tramonto. E poi mi precedette, e lo vidi balzare in alto, al di sopra dell’erba, e ricadere, e non ricomparve più. Poi vidi il fremito dell’aria.
«Oh no!» gridai al deserto e al cielo. «Oh no, oh no, oh no, oh no!» E corsi avanti e mi lanciai contro la muraglia elettrica, che Assule aveva eretto per evitare le calamità.
Sì, è una sensazione strana, un tremito assoluto d’estasi fiammeggiante, come il quasi-orgasmo di una macchina dell’amore, ma ero appena stordita quando i robot vennero a raccogliermi.
Il bestiolino, naturalmente, era morto.
8.
Assule continuava a ripetermi che ero una stupida.
«Te l’avevo detto, della muraglia elettrica,» gridò. «Avresti potuto risentirne molto di più.»
Non parlò del bestiolino. Non disse che quel che mi era capitato era colpa mia perché ero scappata via così sconvenientemente. Io ero distesa nella mia cabina, e lo guardavo, e di tanto in tanto gli dicevo «Stai zitto». Le femmine stavano sulla porta e dicevano che era una vergogna che mi fossi fatta trovare nuda, e dov’erano le mie catenelle e i miei vestiti?
Quando mi lasciarono un po’ in pace mi feci portare da uno dei robot il bianco corpo peloso e inerte del bestiolino. Fissai i suoi occhi arancione, vitrei. Sembrava così pieno di beatitudine, nella morte.
«Voglio un avioplano per tornare in città,» dissi al Glar. «Subito.»
Bene, era fin troppo contento di sbarazzarsi di me, perciò ne chiamò uno, e io salii a bordo e tornai a casa, fissando i finestrini coperti, con il bestiolino sulle ginocchia. Non c’era più niente da vedere, comunque. La fioritura del deserto non resiste per più di un unit. Lo splendore che avevo attraversato stava già morendo.
A Quattro BEE andai subito al Limbo.
«Questo è il mio bestiolino,» dissi, «per me è molto importante. Voglio che gli diate un corpo nuovo.»
Ma quelli non vollero, e io sapevo che non avrebbero voluto. Tentarono di spiegare che c’erano ragioni morali.
«Non possiamo far questo per un animale,» dissero. «E poi, è morto da troppo tempo.» Ma questa era solo una scusa. Oh, spero che fosse una scusa.
Perciò andai a casa sola. E anche là fui sola.
E sognai per tutta la notte il deserto e il sole che non dovevo mordere, e finalmente capii il significato che aveva per me quel proverbio. Ero così stanca che adesso potevo ammetterlo. Avevo tentato tante volte, con tanto slancio, e non era servito a nulla.
Il sole. Oh, sì, il sole. Un pezzetto di argilla fragile mi aveva sconfitta all’improvviso, dal suo nido in un deserto d’arcobaleno e d’eruzione di fuochi. Sapevo cos’era il sole; forse quella scritta l’intendeva nello stesso senso, ma non ne sono sicura. Il sole era il Modo Ordinato di Vivere. Nel mio caso era il Modo Ordinato di andare all’ipnoscuola, di essere Jang, di diventare una Persona Anziana, tutta una vita tracciata irrevocabilmente, persino la morte non era permessa, era soltanto un corpo nuovo, o un lungo riposo in un crepuscolo che oscurava la mente, dopo di che il ciclo ricomincia ancora, quando sono stati cancellati tutti i ricordi del passato. Così irrevocabile, così inevitabile, così terribile, così noioso, così votato alla tragedia che era persino troppo piccolo, troppo opaco per essere veramente una tragedia. Non mordere il sole, ti brucerai la bocca. Io avevo morso continuamente, disperatamente, ed ero bruciata, ero bruciata. Ero una brace spenta.