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Sapevo ciò che mi stava succedendo e ripetei a voce alta:

«Il bestiolino mi ha escluso ufficialmente dal suo circolo.» Poi capii che avevo obbedito alle regole e che ero libera di piangere.

PARTE QUINTA

1.

Rimasi a casa per quasi un decimo di vrek, immersa in una sorta di stupore. Probabilmente, piansi quasi sempre. Quando cominciai a venirne fuori, la prima cosa che notai fu che mi dolevano il naso e gli occhi, e che le mie guance, dove erano scorse le lacrime, erano infiammate. Perciò mi spalmai una lozione calmante, e mi feci impacchi agli occhi, e dopo circa venti split riacquistai almeno un aspetto normale. Poi sentii il suono del segnale dal portico, e accesi l’impagine, e vidi un maschio derisann, dai lunghi capelli e dai baffi color miele, e un corpo bellissimo, abbronzato, snello ed atletico.

«Hergal?» chiesi.

«Sono io, cara,» disse la voce splendidamente modulata, e quel «cara» mi fece capire che non poteva essere altro che Hatta.

«H…Hatta?»

«Sì, cara,» disse il bellissimo, groshing Hatta. «Ho saputo tutto. Mi dispiace moltissimo. Posso entrare?»

Attivai la porta e gli andai incontro. Ci incontrammo nell’atrio dorato, e lui mi appariva così derisann e così rattristato per me che lo abbracciai e ricominciai a piangere da consumarmi gli occhi. Era così buono. È sempre davvero così dolce, Hatta: credo che sia una bontà ossessiva, la sua.

Mi depose su un divano e accese la macchina della ninnananna e la musica supratonale più rasserenante che riuscì a trovare, e poi si sedette e mi cullò delicatamente tra le braccia.

Quando mi sentii un po’ meglio, mi asciugò la faccia. Io restai lì seduta a guardarlo mentre si versava del fuoco-e-ghiaccio, e mi imboccava di piccoli chicchi di zucchero.

«Sei così meraviglioso, Hatta,» dissi, e gli tremarono le mani. «Oh, Hatta,» dissi. «Sposiamoci. Subito.»

Ma lui mi fece sdraiare per quaranta split prima di lasciare che lo ripetessi. Poi disse, sottovoce:

«Sei sicura, ooma? Proprio sicura?»

«Oh, Hatta,» dissi io, «non fare lo sciocco. Come potrei trovare qualcosa da ridire?»

Lui scosse il capo, ma restò lì e attese paziente mentre io mi facevo un altro impacco alla faccia e mi preparavo. Poi partimmo con il suo avioplano a nolo, e volammo alla Cupola d’Avorio. Promettemmo di fare l’amore esclusivamente quel pomeriggio, e di tornare dopo a pagare, come bisogna fare quando si è nel periodo dell’annullamento.

Poi andammo in una delle grotte sotterranee, tra il verde e le conchiglie e il resto, e facemmo meravigliosamente l’amore. Credo che quando sei sconvolto e ti stai riprendendo da qualcosa di brutto, ricevi meglio. Comunque, fu groshing.

«Oh, Hatta,» sospirai dopo.

Ma lui girò la testa.

«Oh, Hatta, cosa succede?» chiesi. Mi alzai, girai intorno al giaciglio d’alghe sintetiche, e lui era lì disteso, a occhi chiusi, il viso inondato da grosse lacrime. «Hatta, Hatta,» implorai. «Ooma, che c’è?»

«Non capisci,» chiese lui, sottovoce, «che è tutto inutile?»

«Cosa?» chiesi. «Pensavo che mi volessi sposare. Non capisco.»

«No,» disse lui. «No, non capisci, vero?»

«Ma mi è piaciuto moltissimo,» obiettai. «A te no?»

«Oh, sì,» disse. «Mi è piaciuto avere te, mia ooma, e a te è piaciuto avere il mio corpo, il mio nuovo corpo irreale. Io ho amato te, e tu hai amato il mio guscio.»

«Oh, Hatta,» dissi.

Rimanemmo in silenzio, a lungo.

«Ti amo,» disse poi.

«Lo so.»

«E tu ami il mio corpo,» disse lui.

«Sì,» risposi. «E… Hatta, penso che sei così terribilmente caro e derisann e…»

«E non mi ami, vero? Solo l’esterno.»

«Sì,» dissi io.

E Hatta pianse in silenzio.

E io ridiventai tosky.

«Hatta!» urlai. «Senti, non sopporto anche questo, dopo tutto il resto. Sono in un tale caos, non posso sopportare anche il tuo caos. Davvero, mi dispiace, ma se non la finisci diventerò zaradann.»

Hatta si scusò, si alzò, disse che avrebbe pagato l’altra metà della tariffa matrimoniale e se ne andò, lasciandomi l’avioplano.

E quando lo rividi di nuovo, aveva quattro braccia e le scaglie. Povero, povero Hatta. Se almeno avesse potuto imparare a odiare.

2.

Dopo l’episodio con Hatta prenotai la Distorsione dei Sensi. Credo che alla Commissione fosse arrivata notizia delle mie condizioni insolitamente isteriche, perché non dovetti aspettare molto. Mi mandarono persino una piccola nave aerea azzurra e rosa, tutta allegra e gaia, e suonarono una musica gaia e allegra.

«Ah, sì,» dissero quando mi videro e mi condussero via, tenendomi per mano.

Così mi distesi nel soffice cubicolo peloso e attesi di diventare un fiore, e l’ultimo pensiero che ricordo fu: Dove prendono queste pelli? Sono di animali del deserto? E giurai a me stessa di smantellare la stanza delle pellicce, a casa mia.

E poi mi trovai nella foresta immobile, al mattino, sotto un cielo pallido, ed io ero una pianta altissima, e crescevo, con la mente piena di pensieri vegetali. Ricevevo la luce del sole e sentivo che le mie molecole le trasformavano in cellule verdi. Era molto riposante. Fui un fiore per millenni, e avrebbe dovuto farmi bene. Dopo essere stata un fiore, diventai una montagna, e fu una cosa grandiosa. In effetti, credo che mi sentissi un po’ come Assule. Di sicuro, pensai pensieri del tipo che, ci scommetto, pensava lui. Io sono antica e resistente, sono una cosa divina, sono l’eternità. Ignoravo i venti e la sabbia che mi logoravano, la pioggia che mi erodeva, il sole caldo che mi asciugava. Più tardi fui un lago, azzurro e increspato, miglia e miglia, ed è meraviglioso essere così lungo e ampio, e consapevole di ogni spanna di te stesso. Continuavo a scrollarmi dolcemente, per scacciare il sole dalla mia pelle, e ad incoraggiare le mie piante acquatiche, perché crescessero.

Mi svegliai e all’inizio fui sorpresa di scoprire che avevo due braccia e due gambe e i capelli, e tutto il noiosissimo resto. Provai l’impulso, che a quanto pare è molto comune dopo la Distorsione dei Sensi, di correre al Limbo a dire «voglio un corpo lunghissimo, azzurro, increspato». Ma loro mi prevennero. Cominciarono a ronzarmi intorno e mi fecero un’iniezione nutriente, e mi incoraggiarono a scrivere poesie con una macchina, sulle mie esperienze.

Thinta venne a prendermi: ho l’impressione che le avessero suggerito che doveva venire, e lei naturalmente, siccome era devota e penosamente ligia al dovere, arrivò con il suo avioplano rosa così sicuro. Oh, sì, quel giorno era molto prudente. Non avresti mai detto che anche lei era precipitata sul Monumento a Zeefahr, non molto tempo prima, proprio come Hergal che ormai ci aveva fatto l’abitudine.

«Facciamo dei vestiti d’acqua,» cinguettò Thinta.

Andammo a prendere il materiale necessario e le istruzioni, e vagabondammo per millenni lungo file di ticchettanti macchine a uncinetto, macchine che lavoravano a maglia l’acciaio, e lanaquadro, su cui puoi dipingere, con i raggi elettrici, paesaggi e altre cose da sbalordire te ed i tuoi amici. Io volevo vedere quel che avrebbe fatto Thinta, e ovviamente rubai degli aghi a fuoco: lei rimase solo un po’ imbarazzata e finse di non aver visto niente. Beh, era vero, tutti cercavano di assecondarmi. Mi passarono per la mente mille possibilità di far diventare tutti zaradann, ma ero troppo stufa per realizzarle.

Mangiammo il quinto pasto all’Abisso di Fuoco, e poi andammo a farci i nostri vestiti nel sole mortalmente perfetto del Parco degli Elci, circondate da tutte quelle foglie di giada. All’improvviso, le foglie mi ricordarono il drago della Torre di Giada, e tutti gli altri animali di Quattro BAA, e poi Lorun, e ricominciai di nuovo a piangere. Le mie lacrime si impiastricciarono sull’abito d’acqua e lo rovinarono.