«Oh,» continuava a implorare Thinta, «oh, non piangere più, ooma.» Riuscii a smettere solo perché vidi che lei era veramente sconvolta. Non so bene se fosse per simpatia o per imbarazzo. Probabilmente per tutte e due le ragioni.
Facemmo il sesto pasto e Thinta pagò con entusiasmo e poi mi fece una sorta di predicozzo, a bordo della nave celeste dove stavamo mangiando.
«Sai,» esordì, «tutti hanno dei momenti sciocchi.»
«Davvero?» chiesi, poco incoraggiante.
«Lo sai benissimo, ooma,» disse Thinta. «Guarda me, e il fatto che vorrei essere un felino, e avere il pelame e le fusa che, per fortuna, la Commissione ha avuto il buon senso di non darmi. Adesso mi rendo conto che ero ridicola e infatti ne rido. Ah! Ah!» La sua risata era un po’ forzata?
«Non credo che tu ne rida davvero,» le dissi, implacabile. «Credo che tu finga di ridere, mentre in realtà sei furiosa perché non puoi cominciare a farmi le fusa.»
«Oh, andiamo,» disse Thinta, mostrandomi irritata per quanto può apparire lei, il che significa che aveva solo un’aria perplessa. L’unica volta che l’avevo vista veramente arrabbiata era stato quando le avevano rifiutato il meccanismo per fare le fusa. «Comunque,» concluse, «quel che volevo dire è che ognuno può superare qualunque cosa.»
«Capisco,» dissi io.
«Oh, sì, è proprio vero, ooma.»
«Forse tutti possono riuscirci,» dissi io. «Ma forse non dovrebbero.»
Thinta non seppe rispondermi. Ci si provò, ma non ci riuscì. Beh, non potevo rispondermi da sola, vi pare?
Comunque cercai veramente di tornare a vivere come una volta: ma era come una tunica d’una taglia sbagliata. Non mi andava più bene. Se mai mi era andata bene. Andai a fare acquisti e rubai, feci delle corse con la sfera e sul fuoco, andai a imprecare contro il Museo della Robotica, e sposai di nuovo Hergal, anche se capii che non si godette molto il nostro pomeriggio. Era troppo impaurito dall’idea che mi mettessi a piangere sulla sua spalla, anche se, per riguardo, non lo feci. Andai al Palazzo delle Dimensioni e non mi spaventai neppure, diventai solo completamente tosky, anche se credo che quello fu il risultato migliore che avessi mai ottenuto.
Finalmente pensai alle Stanze del Sogno.
Andai nella versione del Quarto Settore, che ha nubi di porpora e cubicoli fluttuanti, e impiegai circa ottanta split a programmare il robot, per essere sicura di avere una fantasia perfettamente groshing. Questa volta non provavo neppure un senso di colpa… di questo, almeno, il mio Q-R dal tappeto d’acqua era riuscito a liberarmi, indirettamente.
Ed eccomi là: ero la danzatrice famosa, fantasticamente erotica di un’antica tribù del deserto. Eravamo stati catturati da un’altra tribù più potente e trascinati in catene nel deserto, ridotti in shiavitù. La notte giacevamo sotto le stelle fredde del deserto, fissando le grandi tende blu, e la tenda più grande di tutte, che apparteneva al capo tribù. Non l’avevo mai visto, ma evidentemente lui aveva visto me e aveva saputo della mia fama di danzatrice; all’inizio del sogno, aveva chiesto che mi presentassi davanti a lui, nella sua enorme tenda, e mi aveva mandato un costume groshing perché l’indossassi. Lo misi e mi ammirai nello specchio sorretto dai suoi servi. Era scarlatto, ricamato di perle e di dischi d’argento e di nastrini rossosangue. Io avevo un oceano di folti capelli neri, e occhi verdi, ed ero insumatt. Poi una vecchia saggia della nostra tribù mi si avvicinò, facendo sferragliare le sue catene, poveretta, e mi prese in disparte.
«Devi ucciderlo,» disse, senza preamboli.
«Come?» chiesi io. Non ero troppo turbata. Voglio dire, nel deserto eravamo tutti duri e coraggiosi (come al solito).
«Con il tuo coltello,» disse la donna. «Eccolo, te l’ho serbato io, quando siamo stati assaliti.»
Ed ecco la lama mortale dall’impugnatura d’osso, che il mio fattore mi aveva donato quand’ero bambina. Lo accarezzai, e promisi di uccidere il terribile capo tribù — il segnale perché la mia gente si ribellasse e sconfiggesse i nemici sbalorditi e privi di capo — o di perire. Naturalmente mi sarei innamorata pazzamente di lui, e non sarei stata capace di ucciderlo, e lui si sarebbe innamorato pazzamente di me e non sarebbe stato capace di punirmi, e poi le nostre tribù si sarebbero unite, su un piano di parità, e tutto sarebbe andato in modo derisann. Solo, le cose cominciarono ad andare male.
All’inizio tutto procedette regolarmente. Uscii, dopo aver nascosto il coltello nella fusciacca scarlatta, e mi avviai tra i fuochi da campo verso la tenda imperiosa: splendevo di orgoglio e di bellezza. Gli schiavi aprirono le falde della tenda ed io entrai nel’oscurità inazzurrata dall’incenso, rischiarata dalle torce. E lui era là seduto, scuro di pelle e di capelli e meraviglioso, e i tamburi cominciarono a suonare, e i flauti esili, e i cembali, e i vasi d’argilla pieni di semi secchi; e io mi misi in posa e incominciai una danza lenta e sensuale, capace di ipnotizzare tutti. La musica divenne più svelta, sempre più svelta, e io piroettai, e poi estrassi il coltello e balzai verso il capo tribù. E mi fermai di colpo. Doveva essere così, ma non per la ragione che mi aveva fermata davvero. Dovevo arrestarmi perché lui era troppo bello, ma in realtà lo feci perché là, sul trono imbottito, stava un grosso, lanoso piedi-a-sci, che agitava lentamente le orecchie.
Urlai e lasciai cadere il coltello.
«Prendi un po’ di ananas-cactus,» offrì il piedi-a-sci, indicando un piatto d’argento. «Su, su, non fare la sciocca,» disse suadente mentre io arretravo. «Detesto la timidezza.»
Mi guardai intorno, freneticamente, e vidi che tutto ciò che c’era nella tenda era cambiato: adesso erano gli esseri più ridicoli, con pelo e piume, lunghe orecchie e vibrisse pendule, nasetti frementi e nasoni frementi, corna e antenne e code varie, e tutti chiocciavano e grugnivano e gracchiavano in toni incoraggianti. Io riuscii solo a mettermi seduta, perché le ginocchia mi si piegavano.
«Così è molto più intimo,» disse il piedi-a-sci. «Ora dimmi, perché vorresti uccidermi? Per la nostra incursione?»
«Ci avete resi schiavi.» Tentai di recitare il dialogo preodinato ma, davvero, il piedi-a-sci aveva l’aria così sincera e preoccupata, con quel suo muso peloso. Proruppi in un risolino isterico.
«Povera me, è isterica,» osservò un grosso drago piumato sulla mia sinistra.
«Bevi un po’ di vino,» disse il piedi-a-sci. «Ti farà bene.» Si protese verso un tavolo, ma il tavolo volle fare di testa sua. Spiegò quattro gambe pelose e uscì con calma dalla tenda, facendo sussultare il vino e i piatti disposti sul suo piano.
«Fermatelo,» gridò il piedi-a-sci, e tutta la compagnia l’inseguì, starnazzando e tuonando e inciampando gli uni nella coda degli altri e chiedendosi scusa a vicenda. «Andiamo,» disse il mio ospite. «Credo che abbiano bisogno d’aiuto.» Perciò anch’io e il piedi-a-sci partecipammo al caos, e tutti quanti inseguimmo il tavolo, tra le braci dei fuochi da campo. Il tavolo si mise a correre, e sebbene la nostra andatura non rallentasse, sembrava ormai improbabile che riuscissimo ad agguantarlo. Ci lanciammo sulle dune, sotto le stelle bianche, urlando e strillando, e il piedi-a-sci mi prese la mano in una zampa enorme.
«Dobbiamo restare insieme, sai,» ansimò. Il poveraccio era già senza fiato. Probabilmente voleva solo tenermi per mano, per non restare indietro.