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Di tanto in tanto qualcosa cadeva dal tavolo, con uno scroscio, e presto ci trovammo a procedere precipitosamente tra migliaia di piatti d’argento e di frutti schiacciati.

«È inutile,» disse all’improvviso il piedi-a-sci e sedette sulla sabbia, tirandomi accanto a lui. Tutti gli altri si fermarono e si radunarono intorno a noi. Il tavolo scalciò energicamente con i calcagni pelosi e sparì dietro a una roccia.

«È il settimo che abbiamo perduto, in dieci unit,» disse il piedi-a-sci, e le lacrime gli sgorgarono dagli occhi. «Non riusciamo mai a riprenderli.»

Tutti si misero a piangere, e mi misi a piangere anch’io.

E mi svegliai piangendo.

Oh, mi lamentai. Ci fu una scenata terribile, alle Stanze del Sogno. I Q-R arrivarono in frotte e mi dissero che non dovevo impressionare gli altri. Alla fine mi condussero in una lussuosa sala purpurea piena di robot, e il Q-R capo, anche lui in propora, mi chiese di fornire un resoconto dettagliato di ciò che non andava nel mio sogno.

«Beh, tutto!» gridai. «Voglio dire, è stato un sogno vero, un sogno non programmato. E mi ha reso veramente infelice.»

Loro dissero che capivano e, oh certo, proprio non capivano, non era mai successo prima, e mi sarebbe dispiaciuto sottoponili a una lettura della mente? Io dissi che sì, mi sarebbe dispiaciuto. Loro dissero che il guaio stava probabilmente nel fatto che io pensavo troppo ad altre cose. Alla fine mi arresi.

«Comunque, mi rifiuto di pagare!» aggiunsi, bellicosamente.

Naturalmente, date le circostanze, non avrebbero mai pensato di farmi pagare.

Andai a casa.

Beh, era una cosa storica, pensai.

Ricominciai a piangere ancora, ricordando quegli animali desolati e zaradann, che piangevano la perdita del tavolo; poi vidi anche il lato comico della situazione, e cominciai contemporaneamente a ridere.

Kley mi chiamò, si spaventò quando mi vide, e si affrettò ad andarsene ed a lasciarmi in pace.

Avrei voluto anch’io potere lasciare in pace me stessa.

3.

Decisi che, dopotutto, potevo lasciarmi in pace.

Ero in quel corpo da parecchio tempo, anche se in realtà i corpi erano due, perché uno era un duplicato. Guardai con irritazione i miei capelli scarlatti. Sarebbe andato bene l’oro, per cambiare. Non ammisi mai, di fronte a me stessa, che nessuno se la sarebbe presa se io avessi cambiato, nessuno sarebbe fuggito via barrendo a nascondersi, pelo bianco ed occhi arancione, tra l’erba di seta, credendo che io fossi un’altra.

Sapevo che al Limbo avrebbero fatto un sacco di storie se avessi chiesto un altro cambiamento. Assecondarmi era una cosa, ma adesso ero molto più calma, e forse non erano molto disposti ad aiutarmi. Andai a dare un’occhiata alla sfera, ma ormai ero stufa di quel modo di morire. Benissimo, pensai, una volta tanto lo ammetterò, non sono migliore di Hergal. Mi uccido per ottenere un cambiamento, non solo perché sono tosky o depressa. Ma non lo ammetterò molto spesso. Non oso farlo.

Lo chiamai.

«Attlevey, Hergal,» dissi. «Come, hai ancora i capelli blu? Penso che abbiamo bisogno tutti e due di un cambiamento. Cosa ne diresti dello Zeefahr?»

Una volta tanto, Hergal si dimostrò cortese e premuroso.

Partimmo con il suo avioplano e restammo per un po’ librati tra le nuvole, a guardare la minuscola macchiolina laggiù, che era la cupola del monumento a Zeefahr.

«Pronta?» chiese Hergal.

«Sì,» dissi io. Ero decisa a godermela, ma non fu piacevole.

Hergal regolò i comandi con mani esperte e si appoggiò alla spalliera, disinvolto e noncurante. Tutto cominciò a salire precipitosamente, spaventosamente, verso di noi. La cupola divenne semisferica, lucente, terribile.

«Hergal!» urlai. «Ferma!»

«Non posso,» fu l’ultima cosa che gli sentii dire prima che l’urto cancellasse tutto.

E la prima cosa che gli dissi, quando ci svegliammo nella vasca del Limbo, fu: «Hergal, perché fai sempre così? Fa male.»

«Il dolore è una realtà,» disse Hergal, e spense la luce delle comunicazioni.

4.

Il circolo si riunì alla fine del vrek, per una festa tipicamente Jang. Io sposai Hergal, e Kley, che adesso era maschio, sposò Thinta, e Danor, che temporaneamente si era liberata del suo seguito, venne a mettere in mostra la sua bellezza, e Hatta doveva venire a mettere in mostra la sua bruttezza, ma poi non si fece vedere.

Usammo i fluttuanti, bevemmo fuoco-e-ghiaccio e neve-in-oro, avemmo l’estasi e ci divertimmo con le macchine del’amore, facemmo molto chiasso, facemmo l’amore e combinammo pasticci. Io e Hergal avevamo tutti e due ali d’angelo. Sono davvero forti, e noi scoprimmo che potevamo volare, molto goffamente, per brevi distanze… dentro alle nuvole, naturalmente. Avevamo ricevuto entrambi un avviso ufficiale dalla Commissione, per via dei troppi corpi cambiati. Se non avessimo aspettato trenta unit, al prossimo suicidio ci avrebbero messo in frigorifero per trenta unit. È molto fastidioso, mi spiegò Hergaclass="underline" a lui era già capitato. E avevano ritirato a Hergal la licenza di guida dell’avioplano.

Nel bel mezzo di tutto questo, la mia ape ci cadde sulla testa.

«Non so,» disse Thinta, attraverso i capelli di Kley, «perché non riprogrammi quel coso.»

«Immagino che mi piaccia sentirmelo cadere sulla testa,» dissi io. «Immagino che sia differente.» Non lo ammetto spesso neppure questo. Dovevo essere parecchio estatica.

Verso l’alba abbandonammo i fluttuanti e corremmo per Quattro BEE cantando e svolazzando, fino al Museo della Robotica.

«Oh, non fategli del male,» ci implorò Thinta. Penso proprio che stia per diventare adulta. Lo sospetto da un pezzo. Stendemmo i robot curatori e cominciammo a strappare tutto, pazzamente felici e zaradann. I Jang fanno sempre cose del genere, in effetti, ma noi ci illudevamo di essere originali. Poi ci fermammo in quel caos, prendendo pigramente a calci i frammenti, con i piedi calzati di sandali dorati.

Il sole giallo di Quattro BEE stava levandosi allora sull’orlo del tetto trasparente, portando un altro unit di luce e di gioia perfetti e monotoni.

«Oh, Dio,» dissi, «sono assolutamente droad.»

Credo che fosse Hergal a sorreggermi, o forse fu una rete. Non mi accorsi di toccare il pavimento.

Al Limbo erano veramente preoccupati per me. A quanto pareva, ero veramente «svenuta», una cosa che nessuno aveva più fatto da interi eoni. Mi rispedirono nella vasca del Limbo e mi diedero un corpo nuovo, nell’eventualità che nel vecchio ci fosse qualcosa che non andava, anche se non riuscirono a trovare niente. Anche Thinta era preoccupata. Venne a trovarmi, quando mi fecero restare per quattro unit in osservazione.

«Ti ho portato qualche pillola dell’estasi,» mi disse, «e una rivista di moda a illustrazioni mobili.»

«Grazie,» dissi io, cercando di mostrarmi interessata.

«Ehm, ooma,» fece lei, con voce tremula. «Non l’ho detto a nessuno, ma ti ricordi quella strana parola che hai detto, immediatamente prima di… ehm, immediatamente prima di…»

«Di svenire?» chiesi io. Ormai avevo preso quella stranezza con molto coraggio. «No.»

«Hai detto…» Thinta fece una pausa. «Hai detto che eri droad e subito prima di dire che eri droad, hai detto… ehm…»

«Senti, Thinta,» cominciai.

«No. Va bene, ti chiedo scusa. Hai detto ’Oh… Dio’?»

«Davvero?» chiesi io.

«Beh, sì, vedi, effettivamente l’hai detto.»