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Theodore Sturgeon

Nonnina non fa la calza

I

Agli occhi di Roan ci fu uno sfarfallio di tenebra, quasi troppo breve per essere notato, e subito arrivò a destinazione. Scese dal transplat e fece tre passi incerti prima di capire, sbalordito, di non essersi affatto materializzato negli uffici della J. D. Walsh, bensì su una piccola piattaforma da cortile racchiusa fra pesanti e primitivi tendaggi. Nell’aria, troppo calda, stagnava un odore intenso e poco gradevole.

Preoccupato si guardò attorno in cerca del quadro-comandi su cui riformare il numero dell’ufficio di suo padre. Non era dove avrebbe dovuto essere, in un angolo del cortile. Petali! Era già in ritardo, e arrivare in ritardo significava guai.

— Desidera? — canterellò un’affettata voce femminile, bassa e melodiosa.

Roan si voltò di scatto, battendo dolorosamente una caviglia sullo spigolo del transplat. Saltellò di lato su un piede solo. Non s’era mai sentito così tormentosamente goffo in tutti i suoi trent’anni di vita.

— Mi scusi — barbugliò. — Devo aver composto il numero sbagliato. — Localizzò il punto da cui usciva la voce: una porta sul lato opposto. In alto aveva uno spioncino aperto, e in quella piccola cornice era inquadrato un volto…

Il volto!

Se vi capita di sognare volti femminili in genere li sognate dopo averli visti, non prima! Quel pensiero lo stordì un attimo, gli fece sbattere le palpebre, e il suo sguardo s’incantò su un’aureola di capelli d’oro e due verdi occhi ridenti.

— … uno sbaglio, capisce — ripeté, a disagio. — Voglio dire, il numero.

— Forse lo era e forse no — disse lei, in toni che avrebbero fatto invidia alle note di un’arpa. Apparve una sua mano, che spinse di lato l’oro dei capelli.

Una mano nuda.

Ansimando per lo shock di quell’esibizione licenziosa lui si affrettò a distogliere lo sguardo. — Bisogna che usi… uh… posso usare il suo transplat?

— È meglio che andare a piedi — disse lei, e sorrise. — Lo troverà laggiù. — Dallo spioncino sbucò fuori un indice, e dietro di esso un intero braccio nudo. Il braccio si ritrasse, quindi ci fu il rumore di un catenaccio tirato indietro. — Vengo a mostrarle dove.

— No! — Com’era possibile che quella ragazza dimenticasse di… di non essere decentemente vestita? — Lo cerco io. — Annaspò contro i tendaggi, li spostò di qua e di là, e infine dietro uno di essi trovò il quadro-comandi. Volgendole con fermezza la schiena disse: — Non ho spiccioli in tasca.

— Deve proprio andare?

— Sì!

Lei rise. — Bene, comunque sia, lei è mio ospite.

— Grazie — annuì lui. — Le farò… uh… avere — disse, premendo i numeri con attenzione per non sbagliare un’altra volta, — appena possibile… i suoi… tre crediti.

Sempre evitando di guardarla salì sul transplat. Lei era ancora nel suo cubicolo, grazie alle Energie. Poi si rese conto di non avere la minima idea di quale fosse il numero che aveva composto per sbaglio; benché l’avesse intravisto sul quadro-comandi, era stato troppo distratto per leggerlo.

— Ah, non ho il suo numero! — ansimò, ma il solito tremolio di oscurità assoluta era apparso e svanito, e lui si trovava in piedi sul transplat degli uffici della J. D. Walsh, con una mano stupidamente protesa verso Nubile Corson, la più anziana delle segretarie, quella che si acconciava i capelli come una ragazzina.

— Il mio numero? — gli fece eco Nubile Corson. Stupefatta, ridacchiò: — Oh, via, Celibe Walsh! — Sotto il mantello dell’intimità le sue mani guantate si mossero in fretta. Quando lui passò accanto alla scrivania gli cacciò fra le dita una strisciolina di carta. — Ne ho ottenuto uno facilissimo da tenersi a mente — sussurrò con un sorrisetto.

Senza una parola lui si diresse alla porta del suo ufficio. Attese che scivolasse di lato, entrò, e mentre il battente si chiudeva alle sue spalle scaraventò il foglietto nell’inceneritore. — Corolle! — imprecò, gettandosi a sedere in poltrona.

— Roan, vieni immediatamente qui! — latrò l’interfono sopra di lui.

— Sì, Privato! — fu l’ansito di Roan.

Per qualche secondo restò seduto, inalando profondi respiri, quasi che l’ossigeno extra avesse potuto dargli qualcosa di meglio da dire. Poi si alzò e andò a una porta laterale, che si aprì davanti a lui. Suo padre, assiso come su un trono dietro l’ampia scrivania, lo stava fissando accigliato. Era vestito esattamente come lui, esattamente come Nubile Hall, e Nubile Corson, e Madre Walsh e chiunque altro al mondo eccetto… ma non doveva pensare a lei adesso, qualunque cosa fosse accaduta.

Privato Walsh lasciò pesare il suo cipiglio, barba e tutto, su Roan, poi ritrasse le mani guantate sotto il mantello dell’intimità e se le studiò pensosamente. Benché non potesse vederle, Roan sapeva che erano tenute con le dita decorosamente unite e rigide, il più possibile simili a oggetti privi di vita.

— Sono molto dispiaciuto — disse Privato Walsh.

Che altro succede, adesso? si chiese lugubremente Roan.

— Negli affari c’è qualcosa di più che il semplice profitto — affermò il barbuto individuo. — Nel nostro ramo c’è di più che il semplice trasferimento di persone e merci. Non è una grande industria, ma una chiave di volta non è necessariamente una grande pietra. La piattaforma per il trasferimento — declamò, usando la denominazione ufficiale, come se vedesse il transplat vestito di mitra e mantello papale, — è la chiave di volta della nostra società, e questa ditta è la chiave di volta dell’industria dei transplat. Le nostre responsabilità sono grandi. Le tue responsabilità sono grandi. Tu occupi una posizione che richiede un’apparenza esteriore costantemente superiore a ogni critica. Integrità, ragazzo, capacità di essere all’altezza della fiducia altrui… rispetto per l’intimità. E soprattutto onore e decoro.

Ormai abituato a sentirselo ripetere, Roan esibì un atteggiamento doverosamente pentito.

— Uno dei primi attributi di un gentiluomo (e un onesto uomo d’affari dev’essere tale, in quanto sono molte le doti che gli si richiedono) uno dei modi di capire se fra noi vi è un gentiluomo, dicevo, è di dare risposta alla domanda: è puntuale? — Privato Walsh si piegò in avanti così bruscamente che la sua barba sfiorò la scrivania, e Roan ebbe un moto istintivo all’indietro. — Questa mattina tu sei giunto in ritardo!

Roan cedette istericamente all’impulso di giustificarsi. — Ecco, vede, per sbaglio sono finito nell’abitazione di una signora e… ho dovuto spiegarmi con lei, e poiché aveva le mani nude, io… — Ma subito l’educazione ebbe la meglio anche sull’isterismo, e la sua mente s’affrettò a tornare sul binario giusto.

— Privato — ammise sconfortato, — ero già in ritardo. Posso darle una spiegazione, ma… — si raddrizzò, cercando un tono più fermo. — Ma non intendo addurre scuse per scagionarmi. — Fece un passo indietro. — Ho il suo permesso per ritirarmi a meditare nel mio ufficio?

— Niente affatto. Qual è questa spiegazione?

Avrebbe fatto meglio a tirarne fuori una convincente, si disse Roan. Si poggiò una mano sul petto. Sapeva che quella posa, oltre al capo chino, conferiva un certo tono al suo atteggiamento pentito.

— Questa mattina mi sono svegliato con un’idea meritoria — disse. — Ho trovato una procedura per economizzare.

— Se non l’ho già trovata anch’io — tuonò la barba, — deve essere davvero meritoria.