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Che cosa? lo sfidò il Roan interiore.

— Comprare qualcosa per Nonnina — replicò. E la voce interna, maledetti i suoi petali, ridacchiò e disse: — Sai una cosa, Roan? Sei uno sciocco codardo.

Il decoratore era un vecchio Celibe dall’aria contegnosa. Roan acquistò rose e giunchiglie ibride, pagò e si diresse alla porta. A un tratto cedette a un impulso di quel suo strano umore e tornò dentro. — Come venivano chiamate queste botteghe dove vendete rose, prima di metterci l’insegna decoratore? — domandò.

L’uomo emise un nitrito da soprano che a fatica Roan identificò come una risatina. S’appoggiò al banco, gettò uno sguardo cauto a destra e a sinistra, e in tono confidenziale sussurrò: — Fiorista! — E il suo volto si contrasse in un’improvvisa angoscia, mentre sulle palpebre gli luccicavano due lacrime.

Roan attese pazientemente che l’uomo si calmasse, poi chiese: — Ma allora, perché adesso chiamano fiorista quel posto lei-sa-quale?

Questo rese l’uomo di nuovo flemmatico. Si grattò la pallida testa calva. — Non saprei. Suppongo sia perché, comunque lo chiamassero prima, la gente diceva battute o imprecazioni su quelle cose. Come adesso con… i negozi di fiorista.

Roan ebbe un fremito, di cui non comprese bene il motivo; ma con esso penetrò in lui la sensazione d’esser giunto attraverso un sentiero melmoso a una grande verità, e per un motivo indefinibile seppe che non avrebbe mai più motteggiato o imprecato sui negozi di fiorista. Né su qualunque altro nuovo nome avessero dato alla faccenda dopo che quello fosse diventato un nome troppo sporco. Accigliato constatò: — Dev’esserci qualcos’altro su cui dire una battuta spinta o imprecare, no?

L’uomo considerò la domanda con accigliata perplessità, quindi scosse le spalle. A Roan parve un gesto disgustato e di rimprovero, come quello che suo padre gli aveva rivolto anni addietro, quando ancora non aveva imparato a tenersi in bocca certe curiosità. Gli aveva fatto varie domande sui transplat, finché ad un tratto non s’era più trattenuto dal chiedergli come funzionava la faccenda. Il Privato s’era azzittito, aveva esitato, quindi le sue spalle s’erano scosse nello stesso gesto, il cui significato era: «Le cose vanno così perché vanno così, e basta».

Tornando alla zona dei transplat, Roan si fermò davanti a una vetrina dove s’erano radunate alcune persone. Era un negozio di recente apertura, la cui insegna diceva: GIOCHI E PASSATEMPI. Da ragazzo s’era, segretamente, sciolto le dita su una quantità di giochi d’abilità: fasci di bastoncelli da costruzione, labirinti mobili, cordoni da annodare in piatte strisce colorate che poi risultavano del tutto inutili e rompicapo di vario genere. I passanti stavano fissando l’oggetto esposto.

Si trattava di due mani meccaniche, ovviamente guantate, che manovravano due stecchi di ferro dal cui continuo intrecciarsi nasceva una morbida striscia piatta di quello che sembrava tessuto. Nessuno avrebbe osato compiere quei gesti all’aperto, ma la simulazione meccanica era accettabile, anche se qualcuno ridacchiava imbarazzato.

All’interno, su una scaffalatura, erano deposti molti esempi del materiale che si poteva produrre con l’esercizio dei due ferri. Roan entrò, e quando fu certo che il mantello l’avrebbe protetto dagli sguardi altrui sporse una mano per tastare una di quelle strisce morbide.

Il filo con cui era stata tessuta risultava compatto, grazie al suo singolare metodo d’intreccio, e gli parve un risultato interessante. Gli si ripiegava mollemente intorno alla mano come un… come un…

— Quanto costa? Che cos’è — domandò alla commessa.

La donna gli si avvicinò: — Lo chiamavano «lavoro a maglia».

III

Balzò ai Cortili la Farge, poi a Kimberley, a Danbury Marble e a Krasniak, esaminando liste di acquisti e consultando ragionieri. Fece tutto il necessario senza consultare i suoi appunti, poiché a mezzogiorno aveva lasciato l’ufficio senza farsene stampare una copia dal suo computer. Malgrado ciò eseguì il lavoro con efficienza e precisione, anche se tutti dovettero giudicarlo troppo frettoloso. Ma a Roan importava di più che l’ufficio non s’accorgesse del fatto che lui aveva usato per i suoi scopi personali le prime due ore del pomeriggio.

Quella piccola disonestà gli lasciò comunque addosso un senso di colpa. L’onore era parte dell’insieme decoro-intimità-perfezione. E tuttavia cominciava a sembrargli che nel mondo degli affari, per ottenere un vantaggio economico, bisognasse entro certi limiti farne a meno. Questo significava che lui non era, e non poteva essere, quello che suo padre chiamava un gentiluomo? E comunque, quanta importanza aveva ciò?

Decise che non aveva molta importanza; maledisse allegramente la voce interiore che continuava a dargli torto e andò a far visita a sua nonna.

Che gli piacesse o meno, Nonnina gli istillava nelle viscere un timore del tutto particolare. In nessun altro luogo del pianeta gli era mai accaduto di avvertire come lì, in quel cortile, la presenza di un’intera cultura: decenza, intimità, correttezza.

Scese dal transplat e andò a controllare l’ora sul quadro dei comandi. Ne fu compiaciuto: non avrebbe potuto essere più puntuale.

Ci fu un lieve ronzio e una porta scivolò di lato. Era sempre la stessa porta, e come già altre volte si chiese se vi fossero altre stanze, e quali, nella casa di Nonnina. Non si sarebbe stupito nell’apprendere che, se c’erano, erano vuote. Quali potevano essere le sue necessità, oltre la rettitudine, la solitudine e una stanza in cui ricevere?

Entrò e rimase rispettosamente in piedi. Sua nonna, capelli candidi, abito rigido come l’avorio, pelle di cera bianca, gli comunicò con un cenno delle pesanti palpebre che poteva accomodarsi. Roan sedette di fronte a lei, al lato opposto del pesante tavolo dalla superficie spoglia.

— Madre di mio padre — la salutò formalmente. — Ti auguro una buona Stasi.

— Ehilà — disse lei, con affettazione. — Come ti butta, ragazzo? — E malgrado il suo stato d’animo, Roan fu colpito dal fascino arcano di quell’impeccabile linguaggio vecchio stile. La voce di lei era ancora chiara e ben udibile, ma aveva un tono che faceva pensare a un vento lontano. — Hai l’occhio smorto del mezzemaniche che ingoia rospi su rospi.

Roan capì, ma soltanto grazie ad anni di esperienza nel suo strano eloquio fuori moda. — Non va troppo male. Si lavora.

— Come tira avanti la bottega? — La vecchia donna viveva in qualche suo mondo vago e silenzioso, separato dalla realtà del presente, ma non trascurava mai di fargli quella domanda.

— Oh, come al solito… ti ho portato una cosetta. — Dalla tasca interna del mantello tolse le decorazioni che aveva comprato, spezzò il sigillo del cilindro a vuoto e le porse l’esplosione di rose e di giunchiglie che s’erano spalancate attorno. L’altro pacchetto cadde sul tavolo.

Apparve per un istante un guanto niveo, e la donna afferrò gli steli chiusi nell’involucro umidificante. Immerse il viso nella fragrante massa di colori, e lui la udì inalare il respiro dal naso. — Hai avuto una pensata fine, ragazzo — approvò. — E questo cos’è? — Prese il pacchetto, se lo mise in grembo per scartarlo al riparo dell’orlo del tavolo, e chinò il capo per guardarlo meglio. — Ferri da calza! Avrei giurato che non ci fosse più un cane a ricordare cos’è questa roba, oggi. Già quand’ero una fringuella della tua età la usavano soltanto i vecchi rinciucchiti. Si sedevano al sole, gli uomini biascicavano i loro ricordi e le vecchie facevano andare i ferri.

— Pensavo che li avresti graditi. — Roan notò il lieve scrollarsi delle sue spalle, poi la donna chiuse l’astuccio e lo infilò in un cassetto del tavolo.

Si guardarono per un poco, infine lei chiese: — Il lavoro ti pesa troppo? Hai l’aria di… be’, mi stavi parlando di bottega. Come tirano gli affari?