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Lei inarcò le sopracciglia. — Questo progresso di cui parlavamo… ti dirò che anche ai tempi miei molta gente era convinta che fosse l’uomo a programmare il progresso dell’uomo. Ma quando vai al nocciolo della cosa, ti accorgi che neppure il primo troglodita a cui successe di camminare eretto non lo fece perché voleva farlo. Lo fece perché si accorse di esserne già capace. — Quando vide che lui non replicava, aggiunse: — Quello che sto dicendo è che se ai vecchi tempi avevano ragione, e se è vero che il progresso non può essere fermato, allora adesso sta per ripartire. E se riparte, ragazzo, ti schizza via fra le mani… che ti piaccia o che non ti piaccia, che tu sia il capo della J. D. Walsh oppure l’ultimo stivatore di scorie.

— Be’, non credo che succederà.

— Cos’hai negli orecchi quando ti parlo, segatura? Ti ho appena detto che quella cosa è ancora fra noi.

— E allora perché loro… questa gente, dovrebbe mostrarcelo adesso e non, diciamo, fra un migliaio d’anni?

— Perché l’umanità non aveva mai detto basta al progresso. Non in questo modo. — E ruotò lo sguardo attorno alle pareti, come a indicargli l’intero pianeta che li circondava.

— Nonnina, tu vuoi che succeda? Tu?

— Quello che voglio io non conta uno sputo. C’è sempre stata gente con quei… poteri. La mia ipotesi è che oggi, fra tutte le epoche possibili, sia venuto per loro il momento di fare quel passo in avanti. Oggi che noi, ragazzo, non facciamo più un passo verso niente.

Lui volle insistere: — Tu pensi che sarebbe una cosa positiva, allora?

La vecchia esitò. — Guardami bene, guarda come sono decrepita. È una cosa positiva, questa? Ma non importa: succederà. Deve succedere.

— Perché mi parli di questo? — sussurrò lui.

— Perché tu mi hai chiesto cosa sto facendo di bello — disse lei. — E io ho avuto la gentilezza di dirtelo. Penso a queste cose. Ti spaventano?

Lui accennò di sì, ottusamente.

Anche la vecchia annuì, e rise. — Ti fa bene. Ai tempi miei eravamo spesso maledettamente spaventati. E questo ci dava una spinta.

Lui scosse il capo. Ti fa bene. Non riusciva affatto a immaginare che razza di bene quel cosiddetto «progresso» poteva fare se minacciava l’esistenza dei transplat. Cosa ne sarebbe stato di loro? Cosa ne sarebbe stato del loro sistema di vita, e della stessa intimità se qualcuno avesse potuto (come l’aveva chiamata? Teleferesi?) a suo piacere teletrasferirsi nell’ufficio o nel cubicolo di chiunque altro…

— Ascolta, ragazzo, non aspettare che venga il tuo turno se vuoi fare due chiacchiere con la vecchia Nonnina. Datti una mossa quando avrai voglia di parlare di qualcosa. Solo fammelo sapere prima. Nient’altro.

Non c’era nulla che Roan desiderasse meno di un’altra seduta di quel genere, ma ricordò che l’educazione imponeva di ringraziarla. — Arrivederci allora, Nonnina.

— Ci sentiamo, ragazzo.

S’affrettò al quadro-comandi e febbrilmente compose il numero di casa sua. Poi saltò sulla piattaforma. L’ultima cosa che vide, al di là della porta aperta, fu il volto di Nonnina e su di esso un’espressione di… era pietà?

O forse «compatimento» era la parola più adatta.

IV

S’avviò subito al suo cubicolo sfiorando sua sorella che era ferma in un angolo del cortile. Gli parve che fosse sul punto di dirgli qualcosa, ma deliberatamente le volse le spalle e affrettò il passo. La sua mediocrità soddisfatta, le sue interminabili recite sui doveri quotidiani e il suo placido autocompiacimento erano proprio ciò che in quel momento non avrebbe sopportato. Aveva bisogno d’intimità, molta intimità, e subito.

Appena chiusa la porta vi si appoggiò con le spalle. Gli scoppiava il cervello. Era un cervello abilissimo nell’isolare le idee insopportabili in una serie di compartimenti stagni, trasferendole poi dall’uno all’altro finché non le aveva ruminate a fondo. Questo era il motivo per cui sapeva manovrare d’istinto i molteplici affari della ditta. E questo era il motivo per cui era passato indenne attraverso quella giornata straordinaria… fino a quel momento. Ma i compartimenti erano saturi; non doveva succedergli nient’altro.

S’era svegliato poco dopo l’alba per vedere, sullo sfondo chiaro della parete, una ragazza dalle vesti fluttuanti che lo fissava con gravità. Aveva i capelli d’oro e le mani intrecciate su un ginocchio. Non era riuscito a vederle i piedi… non allora.

Era salito sul transplat per andare in ufficio, piombando invece in un luogo non identificabile dove aveva visto intorno a sé strani tendaggi e la stessa ragazza. Lei gli aveva parlato.

Se l’era ritrovata davanti, appollaiata sulla sua scrivania.

Aveva sprecato due ore in un’insolita autoanalisi che l’aveva lasciato perplesso e poco sicuro di sé, ed era andato a fare una visita di rispetto alla sua molto rispettabile nonna, la quale gli aveva riempito la testa con le più sconvolgenti congetture su cui un uomo decoroso potesse mai soffermarsi a riflettere… inclusa una che sembrava alla base delle sue folli visioni. Perché gli aveva suggerito il pensiero che grazie a una forza chiamata tele-qualcosa-o-qualcos’altro certa gente poteva apparire ovunque, con o senza transplat?

Sbuffò. Non c’era bisogno del transplat per avere delle visioni. E lui aveva sognato la ragazza, lì nel cubicolo e nel cortile chiuso da tende. L’aveva sognata nel suo ufficio. — Ecco qua! — disse a se stesso. — Adesso ti senti meglio?

No.

Chiunque avesse sogni di quel genere avrebbe fatto bene a stare lontano dal transplat.

E sia pure, pensò, non erano sogni.

In tal caso Nonnina aveva ragione: qualcuno disponeva di un sistema così superiore al transplat che il mondo — il suo mondo — ne sarebbe stato stravolto. Se soltanto si fosse trattato di uno sviluppo tecnologico avrebbe potuto esser fermato, messo al bando per mantenere la Stasi. Ma se era qualcos’altro… allora era un incontrollabile, assurdo, impalpabile mistero conosciuto solo a pochi individui e lui, Roan, era uno di loro.

Era insopportabile, impensabile. Indecente!

Andò dal fiorista e si fece servire la cena. Ma ebbe un grugnito di sorpresa quando, invece delle solite quattro tavolette e del bicchiere di vitabroth, si ritrovò fra le mani qualcosa di caldo, molliccio e fibroso. Lo esaminò da una parte e dall’altra. Era la cosa dall’aria meno commestibile che avesse mai visto in vita sua. D’altra parte, ogni tanto accadeva che ci fossero delle innovazioni quando il Servizio Nutrizione era pronto a cambiare i prodotti di base a causa dei batteri mutanti e della necessità di fornire nuovi antibiotici.

Ma quel prodotto era troppo voluminoso, oltreché strano. Forse, pensò d’un tratto, era un miscuglio di sostanze nutrienti e crusche stimolanti.

Vi affondò i denti. Un caldo sugo rossiccio gli colò lungo il mento, e un sapore quantomai piacevole gli riempì la bocca, le narici e — così gli parve — perfino gli occhi. Era così buono che lo sforzo di masticarlo gli sembrò una delizia.

Prima che si raffreddasse l’aveva già mangiato fino all’ultimo pezzetto, e si permise un sospiro di meraviglia. Frugò nel vano del distributore automatico nella speranza di trovarne ancora, ma la cena era tutta lì, a parte il vitabroth. Si portò il bicchiere alle labbra, poi cambiò idea e lo depose: niente doveva levargli di bocca quell’incredibile sapore finché avesse potuto continuare a gustarlo.