Franz prese il cigolante ascensore e salì fino al sesto piano. Provò l’impulso di fermarsi prima da Cal o dagli amici, ma era una faccenda di… be’, di coraggio, affrontare direttamente il pericolo. Il corridoio era buio (una delle lampade del soffitto doveva essersi fulminata), e la finestra del pozzo di ventilazione e la porta senza maniglia dello stanzino vicino alla sua camera erano ancora più scuri del solito. Mentre si avvicinava alla porta del proprio appartamento, si accorse che gli batteva forte il cuore. Preoccupato e nel contempo convinto di comportarsi come uno sciocco, infilò la chiave nella serratura e, stringendo il binocolo nell’altra mano, a mo’ di arma impropria, spalancò in fretta la porta e accese la luce centrale.
Il bagliore della lampada da 200 watt gli mostrò che la stanza era vuota e intatta. Sul lato interno del letto ancora sfatto, la sua coloratissima Amante dello Studioso pareva ammiccare ironicamente. Comunque, Franz non si sentì sicuro finché non ebbe controllato (anche se nel farlo si vergognò di se stesso) nel bagno e non ebbe aperto l’armadio a muro e il guardaroba, e non ebbe scrutato al loro interno.
Poi spense la luce centrale e si avvicinò alla finestra, ancora aperta. Le doppie tende, come ricordava, erano verdi all’interno e all’esterno di un colore marroncino chiaro, sbiadito dal sole; ma se in un certo momento il vento le aveva spinte fuori, un’altra raffica doveva averle ributtate dentro. Tra la nebbia che si stava addensando sulla città si scorgeva ancora vagamente la gobba bitorzoluta di Corona Heights. La torre della TV era completamente velata. Franz guardò in basso e vide che il davanzale della finestra, la piccola scrivania che vi stava appoggiata contro e il tappeto ai suoi piedi erano cosparsi di frammenti di carta marrone che assomigliavano ai ritagli prodotti dalla macchina distruggidocumenti di Gunnar. Si ricordò che il giorno prima, proprio in quel punto, aveva esaminato alcune vecchie riviste, per staccare le pagine che intendeva conservare. E, dopo, che cosa aveva fatto? Aveva buttato via le riviste? Non riusciva a ricordare, ma probabilmente sì. Non le vide lì in giro, comunque: c’era solo il mucchietto ben impilato di quelle che doveva ancora esaminare. Be’, un ladro che rubava solo vecchie riviste con pagine mancanti non rappresentava una minaccia seria: era semplicemente un premuroso raccoglitore di carta straccia.
Infine, la tensione che aveva provato fin da quando era in cima alla collinetta l’abbandonò. Si accorse di avere sete. Andò a prendere una bottiglietta di analcolico nel piccolo frigo e la bevve avidamente. Mentre il caffè bolliva sul fornello, rifece in fretta la sua metà del letto e accese la lampada da notte. Portò lì il caffè e i due libri che aveva mostrato a Cal quella mattina, si sdraiò comodamente e lesse qua e là, riflettendo.
Quando si accorse che fuori era ormai buio, si versò altro caffè e scese, con la tazza piena, fino da Cal. La porta era socchiusa. All’interno, vide per prima cosa le spalle di Cal, che si alzavano al ritmo della musica da lei suonata con precisione e con passione; la ragazza aveva gli orecchi coperti dai grandi auricolari imbottiti della cuffia. Franz ebbe l’impressione di udire qualcosa, ma non riuscì a capire se era lo spettro di un concerto o soltanto il lievissimo tonfo dei tasti.
Gunnar e Saul chiacchieravano a bassa voce sul divano, e Gunnar aveva accanto a sé una bottiglia verde. Ricordando le frasi irritate che aveva udito quella mattina, Franz cercò qualche segno di tensione: ma sembrava che tra loro regnasse la massima armonia. Forse s’era immaginato troppe cose, nelle parole di quei due.
Saul Rosensweig (un uomo magro, con i capelli scuri, lunghi fino alle spalle, e gli occhi cerchiati di nero) gli rivolse un sorriso e disse: — Ciao. Calvina ci ha invitati per tenerle compagnia mentre si esercita, anche se un paio di manichini potrebbero fare benissimo lo stesso lavoro. Ma Calvina, in fondo, è una puritana romantica. Sotto sotto, desidera frustrarci.
Cal si era tolta la cuffia e si era alzata. Senza rivolgere una parola o un’occhiata a nessuno (e neppure agli oggetti della stanza), prese dei vestiti dal cassetto e sparì come una sonnambula nel bagno. Poco dopo, si sentì scorrere l’acqua della doccia.
Gunnar sorrise a Franz e disse: — Salve. Siediti e unisciti alla confraternita del silenzio. Come va la vita dello scrittore?
Parlarono pigramente del più e del meno. Saul si preparò con attenzione una sigaretta lunga e sottile. L’odore di resina del fumo era gradevole, ma Franz e Gunnar, sorridendo, rifiutarono di tirare qualche boccata. Gunnar alzò la bottiglia verde e bevve un lungo sorso.
Cal ricomparve dopo un tempo straordinariamente breve, fresca e pudica in un abito marrone scuro. Si versò un bicchiere del succo d’arancia che teneva in frigo e si sedette.
— Saul — disse, con un sorriso — tu sai benissimo che il mio nome non è Calvina ma Calpurnia: la Cassandra romana che continuava a mettere in guardia Cesare. Sarò una puritana, ma non ho preso il nome da Calvino. I miei genitori erano presbiteriani, è vero, ma mio padre era passato in giovane età agli unitarianisti, e quando è morto era un convinto culturista etico. Invocava Emerson e imprecava su Robert Ingersoll. Invece mia madre era una Bahai, una cosa molto meno seria. E non possiedo due manichini, altrimenti potrei servirmi di quelli. No, niente “canna”, grazie. Devo conservarmi pura fino a domani sera. Gunnar, grazie per essere venuto. Fa piacere avere qualcuno nella stanza, anche quando non posso parlare con nessuno. È utile, soprattutto quando comincia a scendere la sera. Quella birra ha un profumo meraviglioso, ma purtroppo… è come per l’“erba”. Franz, hai un’aria strana. Cos’è successo a Corona Heights?
Lieto che Cal avesse pensato a lui e l’avesse osservato con tanta attenzione, Franz raccontò la propria avventura. Notò con sorpresa che, narrandola, diventava quasi banale, meno spaventosa, anche se, paradossalmente, assai più interessante: la solita croce (nonché delizia) degli scrittori.
Gunnar riassunse, in tono allegro: — Dunque, sei andato a fare indagini sull’apparizione, o quel che era, e hai scoperto che ha scambiato posto con te e ti fa le boccacce dalla tua finestra, a tre chilometri di distanza. “Taffy andò a casa mia…” L’hai proprio detta giusta.
Saul osservò: — La tua storia di Taffy mi ricorda un mio paziente, il signor Edwards. Si era messo in mente che due suoi nemici, in una macchina parcheggiata di fronte all’ospedale, puntassero su di lui un proiettore di raggi dolorifici. L’abbiamo portato sul posto perché vedesse con i suoi occhi che non c’era nessuno, a bordo delle macchine parcheggiate. Lui era molto contento e continuava a ringraziarci, ma quando l’abbiamo riportato nella sua stanza ha subito lanciato un urlo di dolore. A quanto ci ha detto, i suoi nemici avevano approfittato della sua assenza per nascondere nel muro un proiettore di quei raggi.
— Oh, Saul — disse Cal, in tono di blando rimprovero — non siamo pazienti del tuo ospedale, o almeno non ancora. Franz, mi domando se per caso non c’entravano quelle due bambine dall’aria tanto innocente. Hai detto che correvano e danzavano, come la tua apparizione bruno-pallida. Sono sicura che, se esiste una cosa come l’energia psichica, le bambine ne hanno in abbondanza.
— Hai davvero una notevole immaginazione artistica. A me, quella spiegazione non è neppure venuta in mente — rispose Franz, rendendosi conto che cominciava a togliere valore all’intero episodio. Ma non poteva evitarlo. — Saul, può darsi che fosse una mia proiezione, almeno in parte; e con questo? E poi la figura era vaga, e non faceva niente di veramente sinistro.