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Nel locale sul tetto, la luce della piccola lampada tascabile rivelò i cavi lucenti, il motore elettrico scuro e gibboso, e le fredde e silenziose braccia di ferro delle leve che si sarebbero svegliate violentemente, con un gran frastuono improvviso, oscillando e scattando, se qualcuno avesse premuto un pulsante, ai piani di sotto. Lo gnomo verde e il ragno.

All’esterno, si era levato il vento. Passando davanti all’imboccatura di uno dei condotti di aerazione, raccolse da terra una pietruzza e ve la lasciò cadere dentro. Il suono secco dell’urto, con i suoi echi, gli giunse dopo circa tre secondi. Venticinque metri, come ricordava. Era piacevole pensare che lui era sveglio e lucido mentre il resto della città dormiva.

Alzò gli occhi verso le stelle che tempestavano la cupola scura della notte come minuscole borchie d’argento. Per San Francisco, con le sue nebbie e i suoi vapori, e lo smog invadente che arrivava da Oakland e da San José, era una bella notte. La luna era tramontata. Studiò affettuosamente la supercostellazione di stelle luminosissime che lui chiamava “Scudo”, un esagono che occupava il cielo, con gli angoli contrassegnati da Capella verso nord, l’ardente Polluce (con Castore nei pressi, e in quegli anni anche Saturno), Procione la piccola stella del Cane, Sirio la più luminosa di tutte, l’azzurrina Rigel in Orione, e (andando di nuovo verso nord) la rossa Aldebaran. Usando il binocolo, scrutò lo sciame dorato delle Iadi vicino ad Aldebaran, e poi, accanto allo Scudo, il minuscolo ammasso bianco-azzurro delle Pleiadi.

Quelle stelle, così salde e sicure, si armonizzavano col suo umore di quel mattino e lo rafforzavano. Guardò di nuovo la clessidra inclinata di Orione, e poi abbassò gli occhi sulla torre della TV, lampeggiante di rosso. Più sotto, Corona Heights era una gobba nera tra le luci della città.

Gli tornò il ricordo (una goccia limpida come il cristallo, così come gli tornavano i ricordi in quei giorni, nell’ora dopo il risveglio) di quando aveva visto per la prima volta la torre della TV di notte e aveva pensato a una frase di un racconto di Lovecraft, L’abitatore del buio, in cui un personaggio, guardando un’altra collina funesta (Federai Hill, a Providence), vede che “il rosso faro dell’Industriai Trust” si è acceso per “rendere grottesca la notte”. La prima volta che aveva visto la torre, Franz l’aveva giudicata peggio che grottesca; ma adesso, stranamente, per lui era divenuta una vista rassicurante, quasi come le stelle di Orione.

“L’abitatore del buio!” pensò, con una risata sommessa, il giorno prima aveva vissuto un episodio di una storia che avrebbe potuto intitolarsi “Colui che stava in agguato sulla vetta”. Che strano!

Prima di tornare nel suo appartamento, scrutò per qualche minuto i bui rettangoli e la smilza piramide dei grattacieli del centro (i babau del vecchio Thibaut!): anche i più alti di essi avevano le luci rosse di avvertimento.

Si preparò un altro caffè, usando questa volta il fornello e aggiungendo latte e zucchero. Poi tornò a letto, deciso a usare la lucidità del mattino per chiarirsi la situazione che la sera prima si era fatta nebulosa. Il volume male stampato di Thibaut e il diario color rosa tea slavata formavano già la testa della sua colorita Amante dello Studioso, che giaceva sul letto accanto a lui. Vi aggiunse i voluminosi rettangoli neri dell’Outsider e altre storie di Lovecraft e di Storie di spettri di Montague Rhodes James, e numerose vecchie copie ingiallite di Weird Tales (qualche puritano aveva strappato le copertine scollacciate) che contenevano racconti di Clark Ashton Smith: per fare spazio dovette buttare sul pavimento alcune riviste sgargianti e i tovaglioli colorati.

Stai sbiadendo, mia cara, le disse allegramente, col pensiero. Assumi tinte cupe. Ti stai vestendo per un funerale?

Poi, per qualche tempo, lesse più sistematicamente Megalopolisomanzia. Mio Dio, certo che il vecchio De Castries ci sapeva fare, ad assumere toni d’erudizione apocalittica. Per esempio:

In ogni periodo storico ci sono sempre state una o due città appartenenti al genere mostruoso, come Babele ovvero Babilonia, Ur-Lhassa, Ninive, Siracusa, Roma, Samarcanda, Tenochtitlan, Pechino; ma noi viviamo nell’epoca delle metropoli (o delle necropoli), in cui queste maledizioni gravide di disastri sono numerose e minacciano di congiungersi e di avviluppare il mondo nella sostanza funebre ma multipotente delle città. Abbiamo bisogno di un Pitagora Nero perché spii la maligna disposizione delle nostre mostruose città e i loro immondi canti urlati, così come il Pitagora Bianco spiava la disposizione delle sfere celesti e le loro sinfonie cristalline, venticinque secoli fa.

Oppure, con un ulteriore accenno alla sua specifica varietà di occultismo:

Poiché noi moderni uomini delle città abitiamo già nelle tombe e siamo abituati in un certo senso alla mortalità, sorge la possibilità di un indefinito prolungamento di questa morte vivente. Eppure, sebbene accettabile, sarebbe un’esistenza morbosa e desolata, senza vitalità e senza pensiero, solo con la paramentazione, e i nostri principali compagni sarebbero entità paramentali di origine azoica, più maligni dei ragni e delle donnole.

E come poteva essere la “paramentazione”? si chiese Franz. Trance? Sogni ispirati dall’oppio? Fantasmi frementi e tenebrosi, sorti dalla privazione sensoriale? O qualcosa di totalmente diverso?

Oppure:

L’elettromefitica sostanza delle città di cui parlo ha la potenzialità di produrre effetti immensi in tempi lontani e in località remote, perfino nel lontano futuro e su altri mondi, ma per ciò che riguarda le manipolazioni necessarie per la loro produzione e il loro controllo non intendo analizzarle in queste pagine.

Wow! come dice l’esclamazione oggi popolare, un po’ consunta ma espressiva. Prese una delle vecchie e fragili riviste e provò la tentazione di leggere il meraviglioso racconto fantastico di Smith La città della fiamma cantante, in cui immense metropoli si muovono e si combattono. Ma mise da parte la rivista, con decisione, e prese invece il diario.

Smith (Franz era sicurissimo che si trattasse di lui) era rimasto certamente molto colpito da De Castries (anche nel caso del “Tiberio” del diario, Franz era sicuro che si trattasse del vecchio occultista), come ne sarebbe rimasto colpito anche Franz se avesse potuto conoscerlo, cinquant’anni prima. Ed era evidente che Smith aveva letto Megalopolisomanzia. Franz pensò che, molto probabilmente, la copia in suo possesso era appartenuta a Smith. C’era un brano caratteristico, nel diario:

Tre ore, oggi, a Rodi 607, col sempre più infuriato Tybalt. Non ho potuto resistere di più. Per metà del tempo ha inveito contro i suoi accoliti traditori, per l’altra metà mi ha gettato sprezzantemente in faccia brandelli di verità paranaturali. Ma quali brandelli! La sua osservazione sul significato delle strade diagonali! Quel vecchio diavolo vede chiaramente le città e le loro infermità invisibili; è un nuovo Pasteur, ma dei morti viventi.

Dice che il suo libro è roba per i bambini dell’asilo, ma il nuovo materiale (il nucleo e la ragione e il modo di operare) lo tiene chiuso nella sua mente e nel Grande Cifrario a cui fa solo accenni. Qualche volta lo chiama (il Cifrario) il “Libro cinquanta”, sempre che io non mi sbagli e che siano la stessa cosa. Ma perché cinquanta?

Dovrei scriverne a Howard: resterebbe sbalordito e… sì!… trasfigurato: tutto conferma e illumina l’orrore decadente e putrescente che lui trova in New York e in Boston e perfino in Providence (non è colpa della presenza di levantini e di mediterranei, ma di paramentali che vengono percepiti solo vagamente!) Ma non sono sicuro che lo sopporterebbe. Anzi, se è solo per questo, non so quanto posso ancora sopportarne io. E se mi perito di accennare al vecchio Tiberius la possibilità di condividere la sua conoscenza paranaturale con altri spiriti affini, assume l’aria feroce del suo omonimo negli ultimi giorni a Capri e ricomincia a inveire contro quelli che secondo lui l’hanno deluso e tradito nell’Ordine Ermetico da lui creato.