Lo sguardo gli cadde sul letto dello studio, ancora mezzo da rifare. Sulla metà intatta, vicino alla parete, c’era una fila lunga, pittoresca e disordinata, di riviste, edizioni tascabili di romanzi di fantascienza, qualche romanzo giallo rilegato, ancora nel cellofane, qualche tovagliolo di carta colorato rubacchiato nei ristoranti, e una mezza dozzina di manualetti “Tutto sull’argomento, con foto a colori”: le sue letture del tempo libero, in contrapposizione al materiale di consultazione e ai suoi scritti, ordinatamente posati sul tavolino accanto al letto. Erano stati la sua principale, e spesso l’unica, compagnia durante i tre anni in cui aveva continuato a ubriacarsi e a guardare opacamente la televisione posta nell’altro lato della stanza, a prenderli in mano e a fissare stupidamente, di tanto in tanto, le loro pagine facili e colorate. Solo un mese prima si era improvvisamente accorto che quel mucchio di pubblicazioni allegre, sparse laggiù a caso, ricordava vagamente la sagoma di una donna snella e disinvolta, sdraiata accanto a lui sulle coperte, e che proprio per questo non le metteva mai sul pavimento, e si accontentava di mezzo letto, e inconsciamente le disponeva sotto forma di una figura femminile dalle gambe lunghissime. Erano una Amante dello Studioso, si era detto, analoga alla “moglie dell’olandese”, il cuscino lungo e sottile a cui, nelle zone tropicali, la gente si stringe nel sonno perché assorba il sudore: una segreta compagna di giochi, una squillo spigliata ma anche riflessiva, una sorellina snella e incestuosa, eterna compagna del suo lavoro di scrittore.
Con un’occhiata affettuosa al ritratto della moglie, e un tenero pensiero per Cal che continuava a mandare verso lui le sue note allegre, mormorò piano, con un sorriso di complicità, alla sottile forma cubista che occupava la parte interna del letto: — Non preoccuparti, cara, sarai sempre la mia preferita, anche se dovremo tenerlo nascosto a tutti — e tornò alla finestra.
Era stata la torre della TV, che sorgeva così alta e moderna sul Monte Sutro, con le tre lunghe gambe ancora immerse nella nebbia, a farlo ritornare alla realtà dopo la sua lunga evasione nei sogni degli ubriachi. All’inizio, aveva giudicato la torre incredibilmente volgare e sgargiante, un’intrusione ancora peggiore dei grattacieli in quella che era stata la più romantica delle città, l’incarnazione oscena del chiassoso mondo del commercio e della pubblicità, o addirittura, con le sue grandi strutture rosse e bianche contro lo sfondo del cielo azzurro (come adesso, al di sopra della nebbia) una raffigurazione della bandiera americana nei suoi aspetti peggiori: le strisce delle insegne dei barbieri e le stelle grasse, appariscenti, irreggimentate. Ma poi, contro la sua volontà, la torre lo aveva colpito con le sue luci rosse, che lampeggiavano di notte: ce n’erano così tante! Ne aveva contate diciannove: tredici fisse e sei intermittenti; e poi la torre, sottilmente, aveva guidato il suo interesse verso altri luoghi lontani, al paesaggio cittadino e alle stelle vere e proprie, così lontane, e, le notti più fortunate, alla luna, e alla fine lui si era di nuovo appassionato a tutte le cose vere, indipendentemente dalla loro natura. E il processo non si era più fermato: continuava ancora. Infine, Saul gli aveva detto, un paio di giorni prima:
«Non so se sia giusto, accogliere con gioia ogni nuova realtà. Potresti fare dei brutti incontri.»
«Bel discorso, da parte di uno psicologo clinico» aveva commentato Gunnar, mentre Franz aveva risposto subito:
«Certo. Ci sono anche i campi di concentramento. I germi patogeni.»
«Non intendevo precisamente questo» aveva replicato Saul. «Parlavo di certe cose incontrate dai miei pazienti dell’ospedale.»
«Ma quelle dovrebbero essere allucinazioni, proiezioni, archetipi e cose del genere, vero?» aveva osservato Franz, pensieroso. «Parti della realtà interiore, naturalmente.»
«Qualche volta non ne sono tanto sicuro» aveva detto lentamente Saul. «Chi può sapere che cosa è realmente successo, se un pazzo dice di avere appena visto un fantasma? È una realtà interiore, oppure esteriore? Chi può dirlo? Tu, Gunnar, cosa dici, quando uno dei tuoi computer comincia a dare risposte imprevedibili?»
«Dico che si è surriscaldato» aveva osservato Gunnar, con convinzione. «Ma ricorda che i miei computer, in partenza, sono degli individui normali, e non degli impallinati e degli psicopatici come i tuoi pazienti.»
«Che cosa significa “normale”?» aveva ribattuto Saul.
Franz aveva sorriso ai due amici, che occupavano due appartamenti posti nel piano tra il suo e quello di Cal. Anche Cal aveva sorriso, ma meno convinta.
Adesso, Franz guardò di nuovo fuori della finestra. Oltre il davanzale, c’era un tuffo verticale di sei piani, che passava davanti alla finestra di Caclass="underline" uno stretto pozzo tra l’edificio e quello adiacente, il cui tetto a terrazzo era quasi all’altezza del pavimento di Franz. Più avanti, a incorniciare sui due lati la visuale, c’erano le facciate posteriori, bianche come ossa e macchiate dalla pioggia, di due grattacieli che salivano sempre più su.
Lo spazio che rimaneva in mezzo ai due colossi era piuttosto stretto, ma gli permetteva di vedere tutta la realtà con cui doveva tenersi in contatto. Se ne voleva di più, bastava che salisse altri due piani fino al tetto, come faceva spesso, in quei giorni e in quelle notti.
Da quell’edificio, situato piuttosto in basso su Nob Hill, il mare di tetti scendeva per poi risalire, rimpicciolendo in lontananza, fino al banco di nebbia che ora mascherava il pendio verde scuro del Monte Sutro e la torre TV. Ma nella media distanza c’era una forma simile a una bestia in agguato, di colore bruno pallido nella luce del mattino, che si ergeva dal mare dei tetti.
Nella carta topografica era indicata semplicemente come Corona Heights. Da parecchie settimane, quell’altura stuzzicava la curiosità di Franz. Adesso, lui puntò il piccolo binocolo Nikon a sette ingrandimenti sulle pendici di terra spoglia e sulla cresta gibbosa, che spiccavano nitide contro la nebbia bianca. Si chiese perché nessuno vi avesse mai costruito. Nelle grandi città, certamente, c’erano delle strane intrusioni. Quella faceva pensare a un residuo, non ancora consumato dagli elementi, di rocce sotterranee affiorate durante i sommovimenti del terremoto del 1906, si disse, sorridendo di un’ipotesi così fantasiosa e poco scientifica. Che si chiamasse Corona Heights per la corona di grandi rocce ammassate irregolarmente sulla sua sommità? si chiese, regolando la ghiera della messa a fuoco; per un attimo, le rocce si stagliarono nitide e chiare sullo sfondo della nebbia.
Una roccia di colore bruno pallido, alquanto sottile, si staccò dalle altre e lo salutò con la mano. Maledizione, quel binocolo gli avrebbe fatto venire un infarto! Se qualcuno credeva che con un binocolo si vedesse bene, era perché non l’aveva mai provato. Oppure si trattava di una macchia della sua retina? Una di quelle briciole microscopiche che galleggiano nell’umore interno dell’occhio? No, ecco, adesso la vedeva di nuovo. Proprio come gli era sembrato: era una persona molto alta, con un impermeabile lungo o con una tonaca ampia, che si muoveva come se danzasse.
Anche con sette ingrandimenti, non si potevano scorgere i particolari delle figure umane, a tre chilometri di distanza: si ricavava solo una vaga impressione delle posizioni e dei movimenti. Tutti molto semplificati. Su Corona Heights c’era una figura scarna che si muoveva piuttosto rapidamente, certo, e che forse danzava tenendo le braccia alte e agitandole, ma era tutto quel che si riusciva a capire.