— Fa’ attenzione anche tu, Cal.
— Quando ho un concerto, mi avvolgo tutta nella bambagia. No, aspetta.
Andò verso di lui, a testa alta, continuando a sorridere. Franz l’abbracciò, prima di baciarla. Cal aveva le labbra morbide e fresche.
14
Un’ora più tardi, un giovane serio e simpatico, nell’archivio municipale, informò Franz che l’811 Geary Street veniva designato nel suo ufficio come Isolato 320, Lotto 23.
— Per quanto riguarda la precedente storia del lotto — disse — dovrebbe andare all’Edilizia. Là dovrebbero saperlo, perché hanno i registri della tassa di edificazione.
Franz attraversò il grande ed echeggiante corridoio di marmo, dal soffitto altissimo, ed entrò nell’ufficio dell’assessorato all’edilizia, che fiancheggiava l’ingresso principale del municipio. I due grandi idoli civici, pensò, nonché le nostre guardie: le scartoffie e le tasse.
Una donna dall’aria preoccupata e dai capelli rossi che cominciavano già a dare sul grigio gli disse: — Deve andare all’ufficio licenze edilizie nell’altro palazzo del municipio, dall’altra parte della strada, alla sua sinistra uscendo, e vedere quando è stata presentata la domanda di costruzione. Con questa informazione, potremo subito aiutarla. Dovrebbe essere semplice. Non sarà necessario risalire a tempi molto lontani: quella zona è crollata tutta nel 1906.
Franz eseguì, pensando che quella faccenda si era trasformata da una fantasia a un balletto di edifici. La ricerca su un semplice palazzo l’aveva portato a qualcosa che si poteva definire il “minuetto del girotondo burocratico”. Senza dubbio, a questo punto, gli scocciatori (tali, infatti, erano, agli occhi degli impiegati, gli utenti del servizio pubblico) dovevano scocciarsi e lasciar perdere… ma lui li avrebbe fregati tutti! Era ancora traboccante di energia, come aveva osservato Cal.
Sì, un balletto nazionale di tutti gli edifici, grandi e piccoli, grattacieli e baracche, e tutti sorgono e stregano per un po’ le nostre strade, e alla fine crollano, con l’aiuto dei terremoti oppure no, al suono della proprietà, del denaro e dei documenti, con un’orchestra sinfonica di milioni di impiegati e di burocrati, tutti intenti a leggere e a scarabocchiare con diligenza i loro pezzetti di carta appartenenti alla partitura infinita di quel concerto, che alla caduta degli edifici finiscono nelle macchine tranciadocumenti, schierate in riga, come file di violini, però non sono Stradivari ma Stracciafogli. E su tutto cade la nevicata di pezzetti di carta.
Nell’altro palazzo, di stile moderno con i soffitti bassi, Franz rimase piacevolmente sorpreso (ma il suo cinismo subì un affronto) quando un giovane cinese corpulento, debitamente invocato mediante la formula rituale dei numeri dell’isolato e del lotto, in due minuti gli porse un vecchio modulo prestampato, compilato con un inchiostro che era diventato marrone, e che incominciava con: “Richiesta di licenza edilizia per la costruzione di un edificio di mattoni a 7 piani con struttura d’acciaio sul lato sud di Geary Street, 8 metri a ovest di Hyde Street, per il costo preventivato di dollari 74.870, destinato a uso albergo”, e finiva con: “domanda presentata il 15 luglio 1925”.
Il primo pensiero di Franz fu che Cal e gli altri avrebbero tirato un sospiro di sollievo nell’apprendere che l’edificio aveva una struttura d’acciaio: se l’erano chiesti spesso, quando avevano parlato di terremoti, e non erano mai riusciti a trovare una risposta soddisfacente. Il suo secondo pensiero fu che l’edificio era molto recente, quasi una delusione: la data di costruzione era quella della San Francisco di Dashiell Hammett… e di Clark Ashton Smith. Comunque, i grandi ponti non erano stati ancora costruiti, e tutto il loro lavoro lo sbrigavano i traghetti. Cinquant’anni erano un’età rispettabile.
Franz copiò quasi tutti i dati scritti in inchiostro marrone, restituì il documento al giovanotto grasso (che, tutt’altro che imperscrutabile come voleva la tradizione dei cinesi da romanzo, sorrise) e tornò all’ufficio dell’assessorato, facendo dondolare baldanzosamente la borsa. La donna dai capelli rossi era andata a preoccuparsi altrove, e due vecchietti claudicanti ricevettero le sue informazioni con aria dubbiosa ma alla fine si degnarono di consultare un computer chiedendosi scherzosamente se funzionasse. Comunque, sotto l’aria ironica, si vedeva benissimo che provavano un senso di reverenza.
Uno dei due premette vari pulsanti e poi lesse su uno schermo, invisibile al pubblico: — Ecco, licenza concessa il 9 settembre 1925, costruito nel 1926. Costruzione ultimata in giugno.
— C’era scritto che era destinato a uso albergo — disse Franz. — Può dirmi che nome aveva?
— Dovrà consultare un annuario. Noi non ne abbiamo, di quell’epoca. Provi alla biblioteca di fronte.
Diligente, Franz attraversò l’ampia distesa grigia, con piccoli alberi distanziati e scuri, e piccole fontanelle e due lunghe vasche d’acqua increspate dal vento. Ai quattro lati, gli edifici pubblici si ergevano maestosi, e quasi tutti erano massicci e anonimi, tolti il municipio, dietro di lui, che aveva la cupola classica, e la grande biblioteca pubblica, che era ornata con i nomi dei grandi pensatori e scrittori americani; e uno di questi ultimi (un punto per noi) era Poe. Un isolato più a nord, il Federal Building, cupo, severo e interamente moderno (era tutto vetri), vigilava come un sospettoso fratello maggiore.
Franz, che si sentiva euforico e protetto dalla fortuna, si affrettò. Aveva ancora molte cose da fare, quel giorno, e il sole già alto gli ricordava che il tempo passava. Entrò, attraversò la calca di giovani donne severe e occhialute, di bambini, di hippy con giubbe borchiate, e di vecchi fissati (i lettori tipici), restituì due libri, e senza attendere altro prese l’ascensore che lo portò al corridoio del secondo piano, che era vuoto. Nella silenziosa ed elegante sala San Francisco, una signora dall’aria un po’ sofisticata gli sussurrò che gli annuari della città arrivavano solo al 1918, e quelli successivi (roba più dozzinale?) erano nella sala dei cataloghi al primo piano, dove c’erano le cabine telefoniche.
Un po’ deluso, ma non troppo, Franz scese nella grande sala, fantasticamente alta, a lui ben nota. Nel secolo precedente e nei primi anni di quello attuale, le biblioteche erano state costruite nello stesso spirito delle banche e delle stazioni ferroviarie: tutte pompa e orgoglio. In un angolo isolato tra alti scaffali stracarichi, trovò la fila di volumi che cercava. Tese la mano verso il 1926, poi verso il 1927; quello doveva elencare di sicuro l’albergo, se era esistito. E adesso veniva il bello! Cercare gli indirizzi nominati nella domanda di licenza edilizia e trovare l’albergo; naturalmente era necessaria un po’ di pazienza, perché doveva controllare gli indirizzi di tutti gli alberghi (che potevano essere indicati facendo riferimento alle strade trasversali anziché ai numeri civici) e magari anche quelli delle case albergo.
Prima di sedersi, diede un’occhiata all’orologio da polso. Dio, era più tardi di quanto non avesse pensato. Se non si sbrigava, rischiava di arrivare a Corona Heights dopo che il sole aveva lasciato la fenditura tra i grattacieli, troppo tardi per il controllo che intendeva compiere. E i volumi come quello non venivano dati in prestito.
Impiegò solo un paio di secondi per arrivare a una decisione. Dopo essersi dato un’occhiata attorno, apparentemente distratta, ma in realtà attentissima, per assicurarsi che in quel momento nessuno lo guardasse, infilò l’annuario nella borsa e uscì con indifferenza dalla sala dei cataloghi, e prelevò un paio di tascabili da uno degli espositori girevoli, a casaccio. Poi scese la grande scala marmorea, abbastanza ampia e maestosa per girarvi la scena del trionfo in un film epico sull’antica Roma. Si sentiva addosso gli occhi di tutti, ma sapeva che non era vero. Si fermò al banco per far registrare i due tascabili e per infilarli ostentatamente nella borsa, poi si allontanò senza dare neppure un’occhiata all’usciere, che non guardava mai nelle borse (a quanto aveva notato Franz) di chi, prima, era passato a farsi dare un libro in prestito, al banco.