Lo sguardo di Byers lo seguì, con curiosità morbosa.
— Dunque quello è il binocolo (attento, Franz!) che ha visto parecchie volte un’entità paramentale e alla fine ne è stato distrutto. — Poi girò gli occhi sul diario. — Franz, furbacchione! Sei venuto preparato almeno in parte a questa conversazione, prima ancora di salire su Corona Heights!
Franz raccolse il binocolo e lo posò sul tavolinetto accanto al portacenere stracolmo, mentre girava rapidamente gli occhi sulla stanza e sulle finestre, dove l’oro si era un po’ oscurato. Disse, in tono blando: — Mi sembra che anche tu mi abbia nascoste varie cose. Adesso dici che è stato Smith a scrivere il diario, ma nell’Haight e perfino nelle lettere che ci siamo scambiati in seguito dicevi di non essere sicuro.
— Hai ragione — ammise Byers con uno strano sorrisetto, forse di vergogna. — Ma mi sembrava saggio fare in modo che lo sapesse il minor numero possibile di persone. Adesso, naturalmente, tu ne sai quanto me, o almeno lo saprai tra qualche minuto, ma… La più banale delle frasi fatte è: “Ci sono certe cose che l’uomo non deve conoscere”; però qualche volta penso che sia valida per quanto riguarda Thibaut De Castries e il paranaturale. Posso vedere il diario?
Franz glielo diede. Byers lo prese come se fosse stato un uovo; l’aprì delicatamente, rivolgendo un’occhiata di rimprovero all’ospite, e con la stessa delicatezza girò un paio di pagine. — Sì, ecco qui. “Oggi, tre ore al Rodi 607. Che luogo, per un genio! Com’è prosaiko!… così scriverebbe Howard. Eppure Tiberio è davvero un Tiberio, e dispensa con avarizia i tenebrosi segreti appresi da Trasillo in questa cavernosa Capri chiamata San Francisco, al suo spaventato e giovane erede Caligola (Cielo! Non io!). E mi domando tra quanto diventerò anch’io pazzo.”
Mentre terminava di leggere a voce alta, Byers prese a sfogliare le pagine seguenti, una alla volta, e continuò anche quando arrivò a quelle in bianco. Di tanto in tanto alzava lo sguardo verso Franz, ma esaminava minuziosamente ogni pagina con gli occhi e con le dita prima di voltarla.
Disse, in tono discorsivo: — Vedi, Clark considerava San Francisco una moderna Roma: entrambe le città hanno sette colli. Dalla sua provinciale cittadina di Auburn, aveva visto George Sterling e gli altri vivere come se tutta la loro vita fosse una festa da antichi romani. E Carmel, forse, per lui corrispondeva a Capri, che era la Piccola Roma di Tiberio, con divertimenti e piaceri più raffinati. I pescatori portavano al vecchio imperatore le aragoste appena prese, Sterling si tuffava per prendere con il coltello le patelle giganti. Naturalmente, Rhodes era la Capri della prima maturità di Tiberio. Naturalmente, capisco perché Clark non voleva essere Caligola. “L’arte, come il barista, non è mai ubriaca”… o veramente schizofrenica. Ehi, e questo cos’è?
Passò delicatamente l’unghia sull’orlo del foglio. — È chiaro che non sei un bibliofilo, caro Franz. Avrei dovuto rubarti il diario quella sera all’Haight, come mi era venuta l’intenzione di fare: ma nella tua sbronza c’era qualcosa di cavalieresco che ha colpito la mia coscienza, e la coscienza non è mai una buona guida. Ecco!
Con un lievissimo scricchiolìo, la pagina si divise in due rivelando lo scritto nascosto in mezzo.
Byers riferì: — È nero, come se fosse fresco… Inchiostro di china, senza dubbio… Ma è scritto con mano molto leggera per non intaccare la carta. Poi qualche goccia di gomma arabica, pochissima per non lasciare grinze… ed è fatta! È perfettamente nascosto. L’oscurità dell’ovvio. “Sulle loro vesti c’è uno scritto che nessun uomo può vedere…” Oh, povero me, no!
Distolse risolutamente gli occhi dal testo che aveva cominciato a leggere mentre parlava. Poi si alzò, reggendo il diario a braccia tese, e si sedette vicino a Franz (così vicino che Franz sentì l’odore di cognac del suo alito), tenendo sollevate davanti ai loro volti le due pagine appena liberate. Era scritta solo quella di destra, in caratteri nerissimi e sottilissimi, tracciati nitidamente e ben diversi dalla scrittura di Smith.
— Grazie — disse Franz. — È molto strano. Avrò sfogliato le pagine una decina di volte.
— Ma non le hai esaminate a una a una, minuziosamente, con la profonda diffidenza del vero bibliofilo. La sigla indica che è stato scritto dal vecchio Tiberio in persona. E lo leggo insieme a te non tanto per cortesia quanto per paura. Quando ho dato un’occhiata alla frase iniziale, ho avuto la sensazione di non doverlo leggere da solo. In questo modo mi sento più sicuro: almeno, si condivide il pericolo.
Insieme, in silenzio, lesserò.
La MALEDIZIONE su Clark Ashton Smith e tutti i suoi eredi, che ha creduto di rubarmi il cervello e di fuggire, ipocrita agente dei miei vecchi nemici. Su di lui la Lunga Morte (il tormento paramentale!) quando tornerà indietro come fanno tutti gli uomini. Il fulcro (O) e il Cifrario (A) saranno qui, al suo amato Rodi 607. Io riposerò nel mio luogo designato (1) sotto lo Scanno del Vescovo, le ceneri più pesanti che lui abbia mai sentite. Poi, quando i pesi saranno su, sul Monte Sutro (4) e su Monkey Clay (5) [(4) + (1) = (5)], la sua vita SIA schiacciata. Trascritto in Cifrario nel mio Libro 50 (A). Va’, mio piccolo libro (B), va’ nel mondo, e resta in attesa nelle edicole e sta’ in agguato sugli scaffali, finché non giunga l’ignaro acquirente. Va’, mio piccolo libro, e spezza qualche collo!
Mentre Franz finiva di leggere, la sua mente turbinava di così tanti nomi di luoghi e di cose, familiari ed estranei che dovette farsi forza per ricordarsi di controllare ancora una volta le finestre e le porte e gli angoli del lussuoso soggiorno di Byers, che ormai si riempivano di ombre. Non riusciva a immaginare cosa significasse la frase “quando i pesi saranno su”; ma presa insieme a “le ceneri più pesanti” gli faceva pensare al vecchio schiacciato a morte dalle pietre pesanti posate una dopo l’altra su un’asse che gli premeva sul petto, per essersi rifiutato di testimoniare al processo per stregoneria a Salem nel 1692, quasi fosse possibile strappare a forza una confessione, come se fosse un ultimo respiro.
— “Monkey Clay” — mormorò sconcertato Byers. — “Scimmia d’argilla”? La povera umanità sofferente, modellata nella polvere?
Franz scosse la testa. E fra tutto, pensò, c’era ancora quel maledetto e sconcertante Rodi 607, che continuava a riaffiorare e che in un certo senso aveva dato l’avvio all’intera faccenda.
E pensare che possedeva quel libro da anni e non ne aveva mai scoperto il segreto. Induceva un individuo a sospettare e diffidare di tutte le cose che gli erano più vicine, dei suoi averi più familiari. Cosa poteva essere nascosto nella fodera dei vestiti, o nella tasca destra dei calzoni (oppure, per una donna, nella borsetta o nel reggiseno), oppure nella saponetta con cui ci si lavava, e che poteva contenere una lametta da rasoio…
E pensare che aveva sotto gli occhi, finalmente, la scrittura di De Castries, così nitida eppure così angolosa.
C’era un particolare che lo sconcertava per un altro motivo. — Donaldus — disse — com’è possibile che De Castries si sia impadronito del diario di Smith?
Byers esalò un lungo sospiro saturo d’alcool, si massaggiò la faccia (Franz prese il diario perché non cadesse) e mormorò: — Oh, quello. Klaas e Ricker mi avevano detto che De Castries era molto preoccupato e offeso, quando Clark era tornato ad Auburn senza avvertirlo, dopo che era andato a trovare il vecchio ogni giorno per circa un mese. De Castries era così sconvolto che è andato nella modesta pensione di Clark e si è spacciato per suo zio: perciò gli hanno consegnato la roba che Smith aveva lasciato lì quando se n’era andato in fretta e furia. “La terrò io per il piccolo Clark”, disse De Castries a Klaas e a Ricker; e in seguito, una volta che i due gli avevano detto di avere ricevuto notizie da Smith, aggiunse: “Gli ho spedito la sua roba”. Quei due non hanno mai sospettato che il vecchio ce l’avesse con Clark.