Dapprima Franz si allarmò a causa della folla (in mezzo, vi si poteva nascondere qualunque cosa), ma ben presto cominciò a sentirsi rassicurato dalla normalità di quei musicofili, che nella stragrande maggioranza indossavano abiti di taglio tradizionale sia nella varietà consueta sia in quella hippy; poi qualche esteta in abiti fantasiosi, adatti per le esperienze artistiche di genere sublime; e infine i gruppi delle persone anziane, con le signore in semplici abiti da sera con qualche tocco d’argento e i signori in giacca e cravatta. Una giovane coppia attirò l’attenzione di Franz. Tutti e due erano minuti e delicati, tutti e due apparivano meticolosamente lindi. Portavano abiti hippy nuovi di zecca, ben confezionati su misura: lui giacca di pelle e calzoni di velluto a coste, lei tailleur di tela jeans splendidamente sbiadito con grandi chiazze pallide. Sembravano due bambini: ma la barba perfettamente curata di lui e la pudica sporgenza del tenero seno di lei li proclamavano adulti. Si tenevano per mano, come due bambole, come se fossero abituati a trattarsi a vicenda con molta delicatezza. Sembravano due bambini vestiti per il carnevale dai loro nonni.
Una sezione della mente di Franz, consapevole e freddamente calcolatrice, gli disse che lì non era più al sicuro che al buio. Tuttavia le sue paure si assopivano, così come si erano placate quando era arrivato in Beaver Street e poi quando era salito sul taxi.
Poco prima di entrare nella sala dei concerti, scorse in fondo al foyer, di spalle, un uomo piuttosto piccolo, con i capelli grigi, in abito da sera, e una donna alta e snella, con un turbante beige e un vestito ampio e fluente, color marrone chiaro. Sembrava che parlassero tra loro animatamente: e quando si voltarono in fretta verso di lui, provò un brivido, perché gli parve che la donna portasse un velo nero. Poi vide che era una negra, e che la faccia dell’uomo era alquanto porcina.
Mentre avanzava nella sala dei concerti, piuttosto nervosamente, si sentì chiamare per nome: sussultò, poi si avviò in fretta lungo la corsia, verso Gunnar e Saul che stavano tenendo libero il posto in mezzo a loro, in terza fila.
— È quasi ora — borbottò Saul mentre Franz s’infilava al suo posto.
Gunnar, con un sorriso un po’ forzato, posandogli per un attimo la mano sul braccio, gli disse: — Cominciavamo a temere che non venissi. Sai che Cal contava su di te, no? — Poi sul suo volto apparve un’espressione interrogativa, quando, dalla tasca di Franz che si stava assestando la giacca, si sentirono tintinnare i vetri rotti.
— Ho rotto il binocolo su Corona Heights — disse laconico Franz. — Te lo spiego dopo. — Poi un pensiero lo colpì. — T’intendi di ottica? Strumenti ottici, lenti e così via?
— Un po’ — rispose Gunnar, aggrottando la fronte. — E ho un amico che è uno specialista. Ma perché…?
Franz domandò, lentamente: — Sarebbe possibile manomettere un cannocchiale, oppure un binocolo, in modo che una persona vedesse in distanza qualcosa che non c’è?
— Be’… — cominciò Gunnar, con aria perplessa, muovendo le mani in un piccolo gesto d’incertezza. Poi sorrise. — Ecco, se tu cercassi di guardare con un binocolo rotto, immagino che vedresti qualcosa di simile a un caleidoscopio.
— Taffy si è dato al gioco duro? — gli chiese Saul, dall’altra parte.
— Non parliamone, per il momento — disse Franz a Gunnar, e rivolse a Saul una rapida smorfia temporeggiatrice (e dietro di lui, e ai lati. La folla dei frequentatori di concerti formava un terreno quanto mai adatto per tendere un agguato), poi guardò il palcoscenico, dove i sei o sette concertisti erano già seduti lungo una curva concava, poco profonda, appena oltre il podio del direttore d’orchestra; uno degli archi stava ancora accordando pensieroso il suo strumento. La sagoma lunga e stretta del clavicembalo, con la panchetta vuota, stava all’estremità sinistra della curva, un po’ spostata verso il centro del palco per avvantaggiare le sue esili note.
Franz guardò il programma. Il quinto concerto brandeburghese costituiva il finale. C’erano due intervalli. Il pezzo d’apertura era:
CONCERTO IN DO MAGGIORE PER CLAVICEMBALO E ORCHESTRA DA CAMERA
di Giovanni Paisiello
1. Allegro
2. Larghetto
3. Allegro (Rondò)
Saul gli diede di gomito. Franz alzò gli occhi. Cal era giunta sul palcoscenico, con molta discrezione. Indossava un abito bianco da sera che le lasciava scoperte le spalle e scintillava un po’ agli orli. Disse qualcosa al flauto e si voltò, guardando di sfuggita il pubblico. Franz pensò che l’avesse visto, ma non poteva esserne sicuro. Cal si sedette. Le luci si abbassarono. Accolto da un’ondata di applausi, il direttore entrò, raggiunse il podio, scrutò i musicisti da sotto le sopracciglia, batté la bacchetta sul leggìo e poi l’alzò seccamente.
A fianco di Franz, Saul mormorò, in tono di preghiera: — E adesso, Calpurnia, in nome di Bach e di Sigmund Freud, fagli vedere di cosa sei capace.
— E in nome di Pitagora — aggiunse Gunnar con un filo di voce.
La musica dolce e ondeggiante degli archi e degli strumenti a fiato dalla voce sommessa e suadente avvolse Franz. Per la prima volta dopo l’escursione a Corona Heights, si sentì completamente al sicuro, tra i suoi amici, fra le braccia del suono ben ordinato, come se la musica fosse un piccolo paradiso di cristallo che li circondava, una perfetta barriera contro le forze paranaturali.
Ma poi intervenne il clavicembalo, con toni di sfida, scacciando la tentazione di lasciarsi scivolare nel sonno cullato, con i suoi nastri di suono scintillanti e frementi che ponevano domande e chiedevano gaiamente e inflessibilmente una risposta. Il clavicembalo disse inequivocabilmente a Franz che anche la sala da concerto era una fuga, non diversa da tutto ciò che gli era stato proposto da Byers in Beaver Street.
Prima di rendersi conto di ciò che stava facendo, anche se ormai sapeva bene ciò che provava, Franz si alzò in piedi, a spalle curve, e passò davanti a Saul, perfettamente consapevole (e tuttavia noncurante) delle ondate di scandalo, di protesta e d’indignazione concentrate silenziosamente su di lui da parte del pubblico… o almeno, così gli sembrava che fosse.
Si fermò solo per accostare le labbra all’orecchio di Saul e dirgli, sottovoce ma chiaramente: — Riferisci a Cal, dopo che avrà suonato il brandeburghese, che la sua musica mi ha imposto di andare a cercare la soluzione dell’enigma del Rodi 607. — E poi passò oltre, in fretta, sfiorando leggermente col dorso della mano sinistra la schiena degli ascoltatori per raddrizzarsi mentre passava, e tenendo la mano destra, come uno scudo, tra sé e le persone cui passava davanti.
Quando arrivò in fondo alla fila, si voltò e vide che la faccia accigliata e pensierosa di Saul, incorniciata dai lunghi capelli bruni, era rivolta verso di lui. Poi risalì in fretta la corsia, in mezzo alle file ostili, sospinto (come da una frusta incrostata di migliaia di minuscoli diamanti) dalla musica del clavicembalo, che non esitava mai. Tenne lo sguardo fisso davanti a sé.
Si chiese perché aveva detto “l’enigma del Rodi 607” e non “l’enigma della reale esistenza dei paramentali”; ma poi si rese conto che l’aveva fatto perché la stessa Cal aveva formulato più volte quell’interrogativo, e perciò avrebbe capito. Era importante che lei comprendesse che lui stava lavorando.
Provò la tentazione di voltarsi per lanciarle un’ultima occhiata, ma riuscì a resistere.
24
Per strada, davanti al Veterans’ Building, Franz prese a scrutarsi ai lati e indietro, adesso molto più a caso di prima: provava un senso non tanto di paura quanto di cautela, come se fosse un selvaggio in missione in una giungla di cemento e percorresse il fondo di una gola rettilinea, fiancheggiata da muraglie pericolose. Poiché si era tuffato volutamente nel rischio, si sentiva quasi baldanzoso.