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— Era davvero il vostro ultimo dollaro? — chiese la ragazza.

Lui sospirò: — Davvero.

— In tal caso, potrebbe interessarvi un lavoro.

Casey rimase perplesso. Non era la prima volta che gli veniva proposto un lavoro, sebbene mai in modo così diplomatico, ma l’ora, il luogo e la ragazza erano privi di logica. Concluse d’aver immaginato la scena. Nonostante il suo piano di buttar giù un sorso e non pensare al domani, il subcosciente non gli dava tregua. E dal momento che si trattava di pura fantasia e che la ragazza era frutto delle libagioni, tanto valeva esser cordiali.

— Quale sarebbe il vostro progetto? — le chiese.

— Che attività svolgete?

Era un problema con cui si erano già arrabattati i cervelli più intelligenti dell’Ufficio Disoccupazione, ma Casey non esitò. — Sono stato barista, camionista e guerriero.

— E questa è stata la vostra più recente attività?

— La penultima. Dopo aver vinto la guerra, con qualche trascurabile aiuto, dovevo disporre del mio denaro mal guadagnato. Avrei potuto dedicarmi alle corse dei cavalli, ma è troppo rischioso, perché esiste sempre la possibilità di vincere. Mi misi invece negli affari e in quattro e quattr’otto feci piazza pulita.

Non desiderava rivangare tutto ciò. In fin dei conti, l’intero scopo della festicciola era di dimenticare. Caso strano, però, la ragazza non chiese nulla. Disse invece: — Siete disponibile, allora.

— Per qualsiasi cosa.

Forse era stata una frase imprudente, ma, in questi casi, si sentiva proprio così: eccitato, spericolato, pronto a tutto. Quando era apparsa quella visione dagli occhi color fumo e priva di apparenti inibizioni, era sommerso dall’avvilimento, e qualcosa doveva pur succedere. La ragazza ordinò ancora da bere, e la sua voce bassa e riposante si affievolì, come in lontananza. Casey non aveva visto se aveva gareggiato con lui, nel calmare la sete, e del resto la cosa non avrebbe avuto importanza, dato il suo grande vantaggio. Era ancora abbastanza euforico, ma non gli garbava che l’immagine della sua interlocutrice svanisse in quel modo. Appoggiò il mento su una mano, sforzandosi di centrare la vista su di lei e soprattutto di afferrare ciò che stava dicendo:

— Un incarico proprio adatto a voi. Credo che vi piacerà.

— Allora non si tratta di guidare un autocarro.

— No. — Ancora una volta, lei parve sul punto di sorridere.

Il sorriso, una vaga promessa di sorriso, quegli occhi, un fremito delle labbra. Però continuava a dileguarsi, per quanti sforzi Casey facesse. Quando lui tentennò il capo a significare che aveva capito, la ragazza chiese il conto e, solo dopo che il cameriere fu apparso e scomparso, Casey vide la borsetta aperta sul tavolo. Il suo sguardo fu attirato non tanto dalla borsetta, che per lui assomigliava a qualsiasi altra, quanto dall’interessante pacco di banconote che conteneva, e che valse a dissipare per un attimo la nebbia nella quale era immerso.

— Che cosa avete detto? — borbottò.

— Cinquemila.

Cinquemila. Bastava aggiungere la parola “dollari” e nasceva la più bella frase che avesse mai uditp. Cercava disperatamente di trovare una spiegazione coerente, quando, dalla porta che dava sulla strada, soffiò una folata di vento lacustre, mentre un cliente entrava nel locale. Quel vento salutare, freddo e tagliente, che ravvivava le giornate nuvolose di novembre a Chicago. Casey scrollò il capo, conscio che c’erano ancora da riempire molte lacune, ma la ragazza taceva e aspettava. Tuttavia fu ancora lei a rompere il silenzio:

— Se dobbiamo arrivare prima che sia buio, sarà bene muoversi — gli disse infine.

Evidentemente dovevano andare da qualche parte. A Casey seccava dover ammettere di non aver seguito i discorsi di lei, e finse d’essere al corrente, mentre si alzava e s’infilava l’impermeabile, ma poi, nell’avviarsi alla porta, concluse che la finzione non poteva durare in eterno.

— Chiariamo bene — disse. — Di che lavoro avete parlato?

Non si era sbagliato circa il sorriso. Spuntò, ed era veramente eccezionale. Fantastici davvero i sogni pazzeschi e inverosimili che potevano nascere da una bottiglia.

— Dovevate essere distratto — lo redarguì la sconosciuta. — Potreste prestare un poco d’attenzione, quando una ragazza vi chiede di sposarla.

2

Ecco dunque il sogno. Casey ne emerse lentamente, si stirò e aprì gli occhi. Nulla più ebbe alcun senso. Giaceva prono su una sorta di lettino stretto e in apparenza senza molle, e, quando si sollevò, vide per prima cosa una donna seduta su una sedia di cucina, all’altro capo della camera.

Non era uno spettacolo particolarmente piacevole, ma gli venne fatto di pensare che era una visita piuttosto inconsueta, data l’ora mattutina. Si rizzò sul gomito per guardare di nuovo, e a poco a poco notò altre stranezze, fra le quali un pesce morto e una bottiglia di vino, per non parlare d’un cielo cosparso di dischi volanti tra cui spiccava un ukulele dalla forma bislacca. Sorrise divertito. Erano quadri accatastati contro le pareti.

Ripensandoci bene, però, le tele non avevano maggior senso logico della prima impressione avuta. Benché un cerchio di ferro gli attanagliasse le tempie, riuscì a mettersi a sedere sul lettino e a guardarsi attorno. La stanza, piccola e quadrata, era illuminata solo da un lucernario distante un chilometro, lassù nel soffitto, e, con l’acume di cui disponeva sempre dopo una sbornia, Casey dedusse di essere nello studio di un artista ove non mancavano l’intonaco scrostato, la vernice graffiata e i soliti accessori. Non rammentava di conoscere artisti, ma ciò non valeva a far luce sulla situazione, e nemmeno spiegava quale buon samaritano gli avesse allentato la cravatta e tolto le scarpe, rincalzandolo poi in una coperta militare. Certo era dovuto al medesimo buon samaritano il rincorante aroma di caffè caldo, che proveniva da dietro un cavalletto ricoperto da un telo. S’infilò le scarpe e partì per indagare, incerto su ciò che avrebbe scoperto, ma lontano mille miglia dalla verità.

Non appena le sue corde vocali si decisero a funzionare, disse: — Scusate, non ci conosciamo credo.

La donna non era un dipinto. Alta per lo meno quanto lui, che non aveva nulla del gigante, aveva capelli color mogano, corti e arruffati. Indossava sul pigiama un camice imbrattato di colori, ai piedi portava pantofole foderate di pelo, e nei suoi occhietti vivaci era palese uno sguardo bonario e divertito.

— Chiamatemi pure Maggie — disse. — Vi secca bere da una tazza senza manico?

— È casa vostra, questa?

— Finché pago l’affitto.

La cucina era poco più grande di una cabina telefonica, ma Maggie pareva avere tutto sotto mano. Si allontanò un attimo dal fornello a gas, aprì il rubinetto del lavandino da bambola e tese al suo ospite una cartina di bicarbonato, dicendo: — Tutto sommato, credo che vi servirà poco, ma è, per lo meno, un pensiero gentile.

— Grazie. A proposito, come mai sono qui?

— Speravo che poteste spiegarmelo voi.

— Non lo sapete?

— So appena che, quando vi attaccate a un campanello, non mollate più. Non so che cosa vogliate vendere, giovanotto, ma io compro di rado dai viaggiatori di commercio che vengono dopo le due del mattino.

Ora che i suoi occhi si erano abituati a stare aperti, Casey vedeva più chiaramente il viso di lei; non poteva dirsi grazioso: tondo, con il naso all’insù, e con tante piccole rughe che lo solcavano, quando sorrideva. Un viso espressivo che rivelava molto, anche se le labbra restavano chiuse.

— Per questo mi avete accolto in casa e mi avete dato un letto? — le chiese.

— Pioveva.

Non era una ragione sufficiente. Casey lo sapeva, ma non ebbe modo di approfondire perché Maggie aggiunse subito: — In fondo al corridoio, c’è la stanza da bagno, e a lasciarla scorrere per circa un quarto d’ora, l’acqua si scalda un po’. Nel frattempo, avrò già bruciato le uova e carbonizzato il pane tostato.