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— Non lo direbbe mai.

— Potrebbero costringerla. Comunque noi filiamo.

— Ma dove possiamo andare?

Già, dove? Non gli restava che un luogo, per quanto l’idea gli ripugnasse. Ritto nella semioscurità, fissava Phyllis sulla soglia illuminata e notò che non assomigliava più al sogno del bar Nuvola. A volte gli pareva impossibile che si trattasse della stessa persona. Questa era una bambina, una bambina incosciente che non capiva di dover stare appartata il più possibile e di non dover rivolgere la parola a chicchessia. Una bambina in cosciente che riusciva a ballare, mentre la morte la sovrastava come una spada di Damocle, e le prime piogge cadevano sulla tomba di suo padre. Doveva condurla al sicuro, in un luogo dove potesse sperdersi in mezzo a migliaia di altre persone insignificanti, in una città troppo grande per occuparsi dei fatti degli altri.

13

Da molti anni ormai la via si chiamava Pulaski Road, ma per Casey e per molti altri sarebbe sempre rimasta la Crawford Avenue. Non si trattava precisamente del genere di strada di cui la gente manda la fotografia a colori ai parenti lontani, ma una delle tante vie commerciali, con le rotaie del tram e i semafori. In fondo, precedendo verso nord, si dipartivano vie secondarie fiancheggiate da file di casette in mattoni rossi, con i loggiati di cemento armato e i vasi di terracotta per le petunie che in genere non fiorivano. Tutte le strade avevano nomi remoti che portavano alla mente parchi e foreste, finché non si fossero guardate con attenzione, oppure commemoravano uomini ormai dimenticati da tutti. Era un quadro ben noto a Casey che procedeva verso nord sotto la pioggia. Non si trattava di un quartiere miserabile, ma di una zona dove la gente avrebbe potuto essere più povera e lo sarebbe probabilmente diventata di quel passo.

In una di quelle vie, sull’angolo della fermata del filobus, si ergeva un brutto edificio in mattoni gialli, e al pianterreno si trovava la taverna di Big John Posda, la cui abitazione era un appartamento di cinque camere al piano superiore. Casey oltrepassò il locale, girò attorno all’isolato e andò a parcheggiare in una viuzza laterale. Ormai aveva già raccontato a Phyllis quanto c’era da sapere su Casimir Morokowski che aveva perso il padre a nove anni e la madre aveva avuto le mansioni di fantesca nel locale di Big John, a undici dollari la settimana, fino al giorno in cui aveva sposato il padrone, scomparendo così dalla lista paga.

Phyllis non aveva fatto commenti. Gli stava seduta a fianco, pallida, lo sguardo solenne, i capelli stretti da una fascia verde e il bavero del cappotto rialzato. Ai suoi piedi era posata una valigetta che conteneva tutti i loro beni, eccettuata la radio, che teneva sulle ginocchia.

— Di quella non ne avremo bisogno — le disse Casey mentre scendevano. — Ci sarà fracasso abbastanza, là dentro.

Non era cambiato nulla. Le finestre della taverna verniciate di verde quasi fino in cima, una nuova insegna al neon sulla porta, ma il resto era come sempre. Pannelli di legno scuro, bancone del bar liscio per l’usura e, di fronte, una fila di nicchie che arrivava fino alla doppia porta della cucina. La maggior parte delle nicchie era vuota, ma una o due donne dai capelli grigi infilavano monetine nel grammofono automatico che suonava una polka, e attorno al banco era riunito un certo numero di persone. Dopo aver sistemato Phyllis in una delle nicchie, Casey si avvicinò al bancone e, prima ancora di scorgerlo, udiva già Big John.

— Le cifre non vogliono dir nulla! — stava gridando con voce stentorea.

Dall’altro lato del bancone un avventore protestò: — Non sono mie le cifre! Ti sto dando le statistiche, le statistiche del governo.

— Le statistiche! — Big John abbatté una grossa mano sul banco facendo tintinnare i bicchieri. — E chi vuole le statistiche? — tuonò. — I miei affari vanno male, e io lo so. Si perde l’impiego e si sa, perdio! La gente non può mangiare quelle maledette statistiche.

Big John era fatto così. Mentre discuteva continuava a mescere birra, ad asciugare il bancone, oppure agitava il panno umido in cenno di saluto verso qualche vecchio amico che entrava. Non stava mai in ozio, e la sua voce tonante riecheggiava senza sosta. Casey si issò su uno degli sgabelli più vicini all’uscita e attese. Prima o poi avrebbe smesso di discutere, si sarebbe udita la sua fragorosa risata per qualche spiritosaggine detta in polacco, e poi sarebbe avanzato lungo il banco per chiedere l’ordinazione al nuovo avventore.

Infatti il panno strofinò una piccola macchia davanti a Casey, e poco dopo Big John alzò lo sguardo. Non era molto cambiato a parte che i capelli brizzolati lasciavano più scoperta la fronte, e qualche chilo si era aggiunto alla sua pesante sagoma. Portava come sempre una camicia a righe azzurre senza colletto; le capsule d’oro gli luccicavano in bocca, e i suoi piccoli occhi simili a due chicchi d’uva, inespressivi e fissi, suscitavano ancora in Casey la sensazione di essere un bambino sparuto e intimorito, in calzoni troppo stretti e blusotto.

— Ah, sei tornato! — fece John.

Era fatto così. Sempre pronto ad accogliere con calore il figliuol prodigo.

— Come sta la mamma? — chiese Casey.

— Come sta? — Le capsule d’oro brillarono per un attimo. — “Come credi che stia? Manchi da nove o dieci anni… mai una lettera, mai una cartolina…

— Otto anni — corresse Casey.

— E va bene, otto. Un bel po’ di tempo.

Casey sentiva su di sé lo sguardo di quegli occhietti penetranti e si sforzava di ripetersi che ormai era un uomo fatto, libero di andare e venire senza rendere conto a nessuno.

Non aveva mai avuto simpatia per John Posda, non lo aveva mai considerato un padre, giudicandolo semplicemente un grassone che sua madre aveva sposato perché la vita era dura. Tuttavia Big John non gli aveva mai fatto del male, non lo aveva mai percosso e neppure ripreso con troppa durezza. Quando si era sposato per la seconda volta aveva già figli grandi e sistemati, e l’idea di allevarne altri, certo non lo allettava.

Riprese a lucidare il bancone scrollando le robuste spalle e disse: — La mamma è disopra. È invecchiata come tutti, ma è ancora disopra. Val su da lei, sei suo figlio.

Dal tono pareva quasi che se ne vantasse, ma Casey non rimase ad ascoltare altro. Per arrivare alle scale gli toccò uscire dalla doppia porta e voltare poi a sinistra. Come in passato, un’unica lampadina illuminava le scale, e lui ricordava ancora la suonata che aveva preso il giorno in cui per disgrazia aveva rotto il paralume di vetro smerigliato con la mazza da baseball.

In fondo al corridoio al piano superiore, una porta immetteva nella cucina che era tuttora verniciata di verde, col pavimento ricoperto da un linoleum nocciola. La madre era seduta davanti al tavolo verniciato a smalto, su cui era steso un giornale aperto; Casey notò per prima cosa che aveva tutti i capelli grigi. Non ricordava bene di che colore fossero stati in passato, ma adesso erano grigi. Le mani posate sul giornale erano screpolate, ruvide per il troppo lavoro, e il viso che volse verso di lui nell’udire la porta che si apriva era troppo stanco per trovare riposo su questa terra. Ammiccò leggermente — non si era mai arresa alla necessità di usare gli occhiali — quindi fece un rapido segno della croce.

— Ciao, mamma — disse Casey. — John mi ha detto che eri qui e sono salito.

— Mio Dio — mormorò lei, con le labbra tremanti. — Credevo che fossi un fantasma.

— Sono io in carne e ossa.

Il silenzio di anni che si frapponeva tra loro era tragico: quante cose non avrebbero mai potuto essere dette né raccontate. “È mia madre” diceva Casey a se stesso “ma per me è un’estranea… oppure sono io un estraneo per lei. Non siamo più neppure capaci di parlarci.”

Alla fine lei disse: — Non mi hai mai scritto; ti credevo morto. Ho acceso tante candele in chiesa.