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— Butterei giù anch’io un sorso di caffè — borbottò. — Non sono abituato alle feste…

— Sei sbronzo! — tuonò John. — Così deve essere una festa di nozze… ci si deve ubriacare prima che la moglie cominci a rompere le uova nel paniere. Giusto?

Anche se Johnson prima non ricordava il suo viso ormai non lo avrebbe più dimenticato. — Siete dunque Casimir — disse. — Il figlio di cui la signora Posda parla sempre.

— Parla sempre di me? — fece Casey con voce strozzata.

— Quello che credeva morto in guerra.

Era stupito. Non aveva mai creduto che a mamma importasse gran che della sua sorte e tanto meno che parlasse di lui con estranei. — La guerra l’ho fatta — disse.

— Esercito di occupazione?

Per farsi coraggio, si diceva che Johnson faceva il suo mestiere, rivolgendo domande. Non significava nulla, stava cercando di riempire le lacune del passato. Non ebbe tuttavia tempo di rispondere, perché la rumba ebbe fine in mezzo ai frenetici applausi, e gli astanti chiedevano a gran voce un’altra polka. Guardandosi alle spalle vide Phyllis che lo cercava. Male. Anche con i capelli acconciati in quel modo, anche con la strana metamorfosi che aveva cancellato in lei il suo modo di fare superficiale, non gli garbava il rischio che si trovasse a faccia a faccia con una persona che indubbiamente aveva studiato abbastanza le sue fotografie per imprimersi nel cervello ogni suo lineamento.

Facendosi strada verso la calca, borbottò: — Se non torno là in mezzo, probabilmente dimenticheranno quale di noi è lo sposo.

Non era cortese voltare in quel momento le spalle al tenente, ma provò un gran sollievo quando si fu tuffato nella ressa e la musica ebbe riattaccato. Non seppe mai quando fu che Johnson se ne andò, ma la volta successiva in cui ebbe il coraggio di guardare verso il bar, lui era scomparso. Sparito silenziosamente come era arrivato. Ormai tra il vino, il grammofono e Phyllis tra le braccia, Casey se ne infischiava.

Quando i passi attutiti di Big John risuonarono ancora una volta diretti alla stanza da bagno, Casey smise i suoi tentativi di dormire. Non riusciva a togliersi di mente la festa, a eliminare il suono della musica e l’orgasmo della serata; d’altronde, la poltrona a dondolo gli indolenziva la schiena. Alzatosi in piedi, si stiracchiò e si accostò alla finestra. Era una notte limpida, e proprio di fronte a lui uno spolverìo di stelle illuminava un tratto di cielo. Doveva far freddo. Intorno alla finestra c’era uno stretto terrazzino a cui si arrivava per mezzo di una scala esterna. Sentendo il desiderio di fumare, apri silenziosamente le persiane e uscì.

Non aveva più sonno e dal terrazzino poteva contare le vetrine buie delle botteghe che fiancheggiavano la via principale. Più oltre, ricominciavano le casette a due piani, ma lui non vide altro, immerso com’era a rispolverare vecchi ricordi. Sull’altro lato della strada, la drogheria di Kovack, un seminterrato sovrastato da un grande edificio in mattoni gialli, costruito quando lui aveva circa dieci anni. Aveva anzi rischiato di farsi arrestare per aver asportato assi di legno dal cantiere edilizio. Tutto ciò era accaduto prima che mamma sposasse Big John, e allora valeva la pena correre qualche rischio per procurarsi un poco di combustibile. Là, due porte più oltre, la piccola impresa di pompe funebri, con le sue tende color mostarda…

Appoggiato alla ringhiera di legno del loggiato, lanciava boccate di fumo nell’oscurità, osservando i fantasmi di fronte all’impresa di pompe funebri. Li ricordava bene. Quel ragazzino dal volto smunto era lui, Casimir Morokowski, che cercava di capire che cosa significasse andare al funerale del proprio padre: un fantasma Piccolino, quello, e ce n’erano tanti altri. Li aveva seguiti tutti con gli occhi proprio da quello stesso loggiato, senza capire nulla, eccettuato che la morte era una cosa con cui non si poteva discutere, così come non si discuteva con la polizia, con le suore della scuola o con la frusta della mamma. Sotto certi aspetti, la morte era simile alla vita.

Un funerale con quattro bare, una grande e tre piccole. Poliziotti, folla, fotografi e il piccolo meccanico dell’ autorimessa di Sadow che piangeva come un bambino sperduto e sgomento. Perché aveva confessato di avere avvelenato moglie e figli, quando invece (era occórso un certo tempo per provarlo) era stata la ghiacciaia guasta nel loro modesto appartamento a inquinare il cibo? Perché? I fantasmi erano molto vecchi, ma Casey tremava. Poteva ripetersi che ormai le cose erano mutate, che nessuno sarebbe riuscito a strappare una parola a Casey Morrow con la forza, ma in cuor suo non credeva a se stesso più di quanto non pretendeva che credesse il mondo.

— Casey…

Si volse di scatto, ma era soltanto Phyllis che veniva verso di lui uscendo dalla porta-finestra. Non aveva nulla del fantasma, Phyllis, neppure al buio.

— Non riesco a dormire — disse. — Ho bisogno di una sigaretta.

Era già un progresso riuscire ad accenderle la sigaretta senza che la mano gli tremasse. — Prenderai freddo — osservò Morrow.

— Ho il cappotto.

— Prenderai freddo comunque, a uscire così dal letto caldo.

Del resto non aveva importanza. Capì d’un tratto che qualsiasi cosa avessero detto o fatto nei successivi momenti non avrebbe avuto la minima importanza, perché ormai tutto era deciso e sarebbe andata com’era stabilito che andasse. Una delle tante cose su cui non si poteva discutere.

Il lampione sull’angolo della strada fece emergere dall’ombra il viso di Phyllis. — Che cosa guardi? — gli chiese.

— Fantasmi.

— Molti?

Anche questo non aveva importanza. Soltanto parole che dovevano essere scambiate. Chissà perché. Il mondo è fatto così.

— Troppi — rispose. — Quando ero bambino venivo spesso qui fuori di notte, soprattutto in estate, quando in casa faceva troppo caldo per dormire. Non è un bel luogo, questo, per trascorrervi la fanciullezza.

“È il mio mondo” le stava dicendo. “Guardalo bene e stai attenta.” Ma ormai era già troppo tardi. Vino, grammofono e sogno pazzesco si erano fusi e ogni parola era stata pronunciata. La sigaretta di Phyllis le scivolò tra le dita e cadde a spirale nell’oscurità simile a una stella filante. Quella di Casey fece altrettanto, e i fantasmi, i miseri grigi fantasmi, impallidirono e poi scomparvero.

15

Venne il mattino, di un grigio invernale come tutti gli altri, ma ogni cosa era mutata. Occorreva uno sforzo non indifferente per capire quanto tutto fosse mutato. Casey distolse lo sguardo dal soffitto, su cui la luce proveniente dalla finestra faceva del suo meglio per condurre l’alba a rompere l’oscurità, e volse il capo. Phyllis dormiva come una bambina, i pugni affondati nel cuscino, e Casey capì d’un tratto di avere sempre saputo che sarebbe finita così. Fin dall’inizio del sogno, fin da quando lo aveva guardato per la prima volta con quegli occhi color fumo e gli aveva rivolto il primo sorriso sognante, Casey Morrow era stato una vittima predestinata. E Phyllis? Concluse che anche lei doveva esserne stata conscia. Ma allora cose simili erano davvero possibili? Accadevano veramente?

Si sentiva bene. Non si era anzi mai sentito così bene, e questo era tanto più sorprendente, ricordando la festicciola della sera prima. Avrebbe voluto cantare, ma per timore di svegliare Phyllis prese invece a fischiettare sommessamente mentre scendeva dal letto e, dopo avere radunato gli abiti, si avviò verso la stanza da bagno in punta di piedi. Era ancora presto, e il silenzio domenicale aleggiava nell’appartamento. Mamma era certamente a messa, noncurante dell’ora in cui si era coricata, e Big John (doveva essere alzato, perché non si udiva russare) doveva essere giù nel bar a leggere i giornali umoristici della domenica, innaffiandoli con qualche sorso per sistemare le troppe libagioni della sera precedente. Aveva quasi finito di radersi quando ricordò, e il suo fischiettare si spense.