— Senz’altro, signor Morrow. Volete lasciare un indirizzo?
Era inutile strafare, e riuscì a rispondere con un sorriso: — Chiunque abbia comunicazioni che m’interessano conosce il mio indirizzo.
Tutto andava a gonfie vele. Si trattava di procedere piano, con prudenza. Mantenere un passo misurato e cauto. Si scostò dal banco e si fermò volutamente per guardare l’orologio; ciò gli permise di udire qualche stralcio della conversazione con il tenente della polizia.
Quello dagli occhi azzurri stava dicendo: — So che è una descrizione un po’ vaga, ma Ernie dice che se ci fosse un confronto potrebbe identificarlo in modo positivo.
— Non dimentico mai un viso — intervenne Ernie. — Riconoscerei quel tizio dovunque.
Lentezza e prudenza. Un passo, poi un altro. Quelle simpaticissime porte girevoli non erano poi tanto lontane. Procedere piano, con cautela.
— Ehi! Signore!
Casey s’irrigidì. Sapeva che le parole erano rivolte a lui e sapeva anche chi fosse stato a pronunciarle. Avrebbe potuto mettersi le gambe in spalla, e il vantaggio l’aveva, ma già mentre il pensiero attraversava la sua mente, un grosso agente in divisa era entrato e stava parlando con uno degli inservienti. Rimase dov’era e quando si volse con mossa lenta si trovò a faccia a faccia con il barista.
— Stavate dimenticando la valigia — disse Ernie.
— Ah… grazie. Grazie infinite.
Fuori faceva un tempo freddo e uggioso, e cadeva un fitto nevischio, ma Casey avrebbe accettato con piacere anche una vera e propria tempesta. L’importante era di essere fuori e libero. Quando un tassì rasentò il marciapiede, fu pronto a fermarlo, ma dove andare? Non a Los Angeles, quello era indubbio.
— Alla Stazione Centrale — disse, appoggiandosi poi allo schienale e respirando per la prima volta con un minimo di tranquillità da quando aveva avuto inizio l’incubo.
Quello stato d’animo non durò molto. Bastarono pochi minuti per arrivare alla Stazione, ma furono sufficienti a fargli capire che mai più avrebbe respirato liberamente se avesse tagliato la corda. Una strana riflessione per Casey Morrow, che amava prendere sempre la strada più comoda.
Casey Morrow? Perché gabbare se stesso? Casey Morrow non esisteva. C’era, o meglio c’era stato, Casimir Morokowski, un ragazzetto dal viso sparuto, dagli occhi sgomenti, in stretti calzoni a sbuffo e lunghe calze nere che si attorcigliavano di continuo attorno alle magre gambe. In famiglia lo chiamavano “Cas”, e gli avventori puzzolenti del bar di Big John gli gridavano: “Ehi, tu!”. Per un certo tempo era esistito il sergente Morrow, ma poi era morto. In fondo, nessuno tornava da quel genere di guerra. Quanto a Casey Morrow non era che un abito vistoso e un paio di scarpe fatte su misura, un sogno infranto su una lontana costa di cui non era rimasto neppure di che fare un funerale decente.
Il tassi si fermò davanti alla stazione, ma quando fu entrato, Casey non comprò nessun biglietto. Andò invece a sedersi su una panca nella sala d’aspetto e cercò di riflettere. Non valse gran che. Si accorse di essere all’erta per avvistare la presenza di un uomo con un cappello azzurro e un impermeabile grigio, perché tutto era stato troppo facile. Fumò due o tre sigarette, poi andò a depositare la valigia in uno degli armadietti metallici disposti a file. Forse era una buona idea tenersi leggero, in vista del piano che aveva in mente.
Quando gli riuscì finalmente di ritrovare la casa nella Erie Street, Maggie non c’era. La maggior parte degli edifici nel quartiere erano uguali l’uno all’altro, e non aveva che il nome Maggie come punto di riferimento. Supponeva che fosse il diminutivo di Margaret, ma si sbagliava. Si chiamava proprio Maggie, Maggie Doone, e quando premette il pulsante sotto quel nome, nella fila di cassette per le lettere, non accadde nulla. Forse era stata un’idea balorda. Tornò sul marciapiede davanti alla casa e rimase un attimo incerto, cercando di prendere una decisione.
Tutto il piano consisteva nel trovare Maggie prima che avesse letto il resoconto del delitto e soprattutto prima che le successive edizioni pubblicassero la deposizione del barista. Poteva darsi che la stampa fosse meno esplicita del fattorino, ma un tipo dalla lingua lunga come Ernie non avrebbe certamente nascosto nulla ai giornali. Prima o poi Maggie avrebbe appreso dell’esistenza del compagno di Phyllis Brunner al bar Nuvola, ed era possibile che cominciasse a ricordare alcune cose, da donna intelligente qual era. Per esempio un ubriaco con la manica imbrattata di sangue. Un ubriaco i cui abiti portavano etichette di Beverly Hills.
Più che altro era stata la macchia di sangue a ricondurre Casey nella Erie Street. Una donna disposta a lavare la giacca di un estraneo poteva essere altrettanto disposta a prestare orecchio a un racconto inverosimile quanto il suo. Rischioso, ma a volte trovare un orecchio pronto ad ascoltare può essere la cosa più importante del mondo.
La vide arrivare quando distava ancora mezzo isolato. Senza cappello, indossava un voluminoso cappotto di tweed, che probabilmente odorava di trementina e di tabacco, e reggeva una borsa di provviste, particolare questo di maggiore interesse. Non era plausibile che una donna, uscita precipitosamente per dare ragguagli su un presunto assassino, stesse rincasando con passo noncurante, carica di viveri. Casey sperava.
Davanti alla gradinata, lo scorse e lo apostrofò, con la fronte aggrottata: — Non dite nulla, lasciate che indovini. Avete dimenticato il fazzoletto?
— Devo parlarvi. È importante.
Parve sul punto di protestare, ma l’espressione preoccupata di lui la dissuase.
— Parlate pure.
— Non qui.
— Sentite, giovanotto, la mia buona azione l’ho già compiuta.
— Non qui — ripeté Casey.
Attraversarono l’ingresso e, mentre salivano su per la stretta scala, dall’espressione di Maggie si capiva che la faccenda cominciava a preoccupare anche lei.
Appena giunti nel piccolo studio, Casey si guardò attorno. Neanche un giornale, tanto di guadagnato. Ma poi dalla borsa delle provviste vide spuntare il quotidiano piegato.
— Avete già visto? — chiese.
— Visto che cosa? Che volete, insomma?
Era perfettamente inutile tergiversare con una donna come Maggie Doone. O parlar chiaro o sparire.
— C’era del sangue sulla mia giacca, non è vero? — le chiese.
Non rispose, ma impallidì leggermente.
— Non vi è sembrato strano… sangue sulla mia giacca?
— No, potevate aver avuto una rissa.
— Senza neppure uno sgraffio?
— Non vi ho esaminato! Dove volete arrivare?
Volle afferrare il giornale, ma non era ancora il momento, e Casey glielo impedì, dicendo: — Ve lo darò soltanto quando mi avrete ascoltato. Prima dovete sentire la mia versione, che corrisponde alla verità.
Le riferì i fatti per filo e per segno, così come si erano svolti. Il bar, gli ultimi due dollari sul tavolo, la ragazza, il suo aspetto, la sua conversazione… le cose pazzesche che aveva detto… — Siamo poi usciti insieme, o per lo meno così mi dicono. A questo punto la mia memoria non funziona più.
— So che gli uomini scarseggiano — fece Maggie lentamente — ma non sapevo che le ragazze andassero in giro con la dote nella borsetta…
Tacque, fissando con gli occhi sbarrati la pila di banconote, che Casey aveva posato sul tavolo di cucina. Nel suo sguardo divampava la curiosità.
— Li ho trovati nella tasca dell’impermeabile pochi minuti dopo essere uscito da qui stamattina — spiegò Casey. — Sono proprio cinquemila, come aveva detto lei.
Maggie mormorò: — Non capisco.
— Siamo in due a non capire.
— Ma non sapete neppure chi fosse?
— Ora lo so.
A questo punto poteva intervenire il giornale, e Casey glielo tese, guardandosi poi attorno in cerca di una sedia, su cui prese posto a cavalcioni, incrociando le braccia sullo schienale e appoggiando il mento sulle mani. Guardava Maggie leggere le notizie in prima pagina, ma dal volto di lei non trapelò nulla. Poco dopo depose il giornale.