A tre metri da Albertone un tizio, che del pescatore non ha nulla e al massimo potrebbe vendere enciclopedie a rate, non fa in tempo ad aprire l’archetto del mulinello e a lanciare in acqua il suo filo, saggiamente equilibrato dai piombini, che subito un cavedano accorre, per così dire, scodinzolando, a farsi tirar su con tutti i suoi riflessi argentati. E lungo quaranta centimetri, peserà due chili. Roba da non credere.
Il tizio lo infila nel cestino, aggancia un vermiciattolo qualunque e, tempo trenta secondi, viene su un barbo di diciotto etti. Sembra che sorrida di felicità, sotto i suoi quattro baffi.
― Quello lì i pesci lo portano proprio in palma di mano, ― borbotta Albertone.
Anche il tizio borbotta qualcosa ad ogni lancio. Albertone si avvicina e sente che dice:
Pesce, pesciolino,
vieni da Giuseppino.
E il pesce abbocca immediatamente. Albertone non ne può più.
― Scusi, signor Giuseppino, ― dice, ― non per sapere i fatti suoi, ma mi spiega come fa?
― È tanto facile, ― risponde sorridendo il tizio. ― Stia attento.
Lancia di nuovo, e di nuovo borbotta in fretta quella giaculatoria:
Pesce, pesciolino,
vieni da Giuseppino.
E viene su un’anguilla, che di regola da queste parti del Tevere non ci dovrebbero neanche stare.
― È proprio forte, lei, ― dice Albertone sbalordito. ― Mi lascia provare?
― Si figuri, ― risponde il tizio.
Albertone prova, ma con lui il sistema non funziona.
― Dimenticavo, ― dice quell’altro, ― lei si chiama Giorgio?
― No, ma cosa c’entra?
― C’entra, sì, ― dice quello là. ― Io mi chiamo Giorgio, di soprannome Giuseppino. Ecco perché i pesci mi danno retta. Sa, con gli incantesimi bisogna essere precisi al cento per cento.
Albertone fa fagotto e va di corsa in via Bissolati, dove c’è la Crono-Tours, l’agenzia che organizza viaggi nel passato. Spiega il suo problema al dottore di turno. Quello fa un po’ di conti con un cervello elettronico li controlla con il pallottoliere, programma la macchina del tempo e dice:
― Ecco fatto, si accomodi su questa poltrona e buon viaggio. Un momento: ha già pagato?
― Naturale. Ecco lo scontrino.
Il dottore schiaccia un bottone e Albertone si trova nel 1895: l’anno di nascita di suo padre. Lui è un trovatello che sta al brefotrofio. Passa degli anni d’inferno finché esce, va a lavorare nell’Atac, dove lavora anche suo padre; diventano amici. Quando suo padre si sposa e gli nasce un figlio, Albertone lo consiglia per il suo bene:
― Chiamalo Giorgio, di soprannome Giuseppino. Vedrai che avrà fortuna.
Suo padre ci discute un po’: ― Veramente il mio primo figlio lo volevo chiamare Alberto. Però facciamo pure come dici tu.
Nasce il bambino e lo chiamano Giorgio, soprannominato Giuseppino. Va all’asilo, poi a scuola, eccetera. Tutto preciso come prima; la stessa vita che ha avuto Alberto, ma col nome differente. Albertone - che ora si chiama Giorgio, soprannominato Giuseppino - si scoccia un po’ a rifare tutta quella strada. È come ripetere quaranta classi di seguito, perché lui deve arrivare all’età di quarantanni e cinque mesi per tornare sul ponte Garibaldi al momento giusto. Però si consola all’idea che stavolta i pesci gli dovranno obbedire per forza.
Venuto il giorno, venuta l’ora - cioè lo stesso giorno e la stessa ora del primo incontro con il pescatore fortunato - l’ex Albertone corre sul ponte, monta la canna, mette l’esca, lancia il filo e intanto, col cuore in gola per l’emozione, sussurra spiccando bene le sillabe:
Pesce, pesciolino,
vieni da Giuseppino.
Niente.
Aspetta un po’.
Ancora niente.
Aspetta un altro po’.
Sempre niente. I pesci se ne infischiano in una maniera indecente. Tre metri sulla destra di Alberatone-Giorgio-Giuseppino, quell’altro pescatore è lì che fa bollire il granturco su un fornelletto a spirito. Poi infila un grano ben cotto sull’amo, lancia e tira su una carpa di dodici chili, con le pinne rosse per la contentezza.
― Non vale, ― grida l’ex Albertone. ― Anch’io adesso mi chiamo Giorgio soprannominato Giuseppino! E perché i pesci vengono solo a lei? Questa è un’ingiustizia bella e buona e io le faccio causa!
― Come!?! ― dice quello là. ― Non lo sa che la parola d’ordine è cambiata? Stia bene attento.
Prepara l’esca, lancia e, mentre l’amo scende in acqua, dice allegramente:
Pesce, pesciolino,
vieni da Filippino.
Ecco fatto. Viene su un’altra carpa, che dev’essere la gemella della prima, e se non pesa dodici chili pesa centoventi etti di sicuro.
― Ma chi è questo Filippino?
― È mio fratello, ― dice il pescatore fortunato. ― Lui fa il fisico atomico e non ha tempo di venire a pescare. Io, invece, di tempo ne ho tanto perché sono disoccupato.
“Mannaggia!” riflette Albertone. “E chi ce l’ha un fratello di nome Filippino? Io ho una sorella soltanto, e per di più si chiama Vittoria Emanuela. Che fare?”
Torna all’agenzia Crono-Tours ed espone il suo problema al dottore di turno, il quale ci pensa un po’, interroga il calcolatore elettronico e telefona a sua zia. Poi dice: ― Vada pure a fare lo scontrino alla cassa.
Questa volta Albertone deve tornare indietro nel tempo di molti secoli, diventare amico del bis-bis-bis-bisnonno del suo bis-bis-bis-bisnonno, andare con lui in pellegrinaggio a San Jacopo di Compostella per aver occasione di dormire nella stessa osteria. Mentre dorme gli fa di nascosto un’iniezione e in seguito a questa iniezione la discendenza cambia un pochino per volta, tanto poco che nessuno se ne accorgerebbe. Però, quando dovrebbe nascere Vittoria Emanuela, al suo posto nasce invece un maschietto, al quale viene messo il nome di Filippo, con l’intesa di chiamarlo Filippino. Tutto ciò prende un po’ di tempo, ma quando Albertone fa ritorno ai giorni nostri, egli ha un fratello di nome Filippino, di anni trentasei, cuoco a bordo di un transatlantico e tuttora scapolo.
Albertone acchiappa la canna, corre a ponte Garibaldi, fa un lancio di tale eleganza che un tranviere, dal finestrino del filobus numero Quarantatre, gli grida: ―Bravo!
E intanto, naturalmente, egli recita la nuova parola d’ordine:
Pesce, pesciolino,
vieni da Filippino.
Macché. È come parlare al muro. Quell’altro, invece, pesca un’arborella, ma non si da neanche la pena di staccarla dall’amo: la lascia in acqua un altro momentino ed ecco che all’esca viva abbocca, secondo il suo costume, un magnifico luccio-perca, che di regola dovrebbe starsene a nord della diga dell’Enel e, se ha sceso il Tevere fino a queste latitudini, dev’essere stato solo per fare un piacere personale al pescatore fortunato.
― Non vale! ― grida Albertone, con una voce che provoca un ingorgo del traffico dall’Argentina a piazza Mastai. ― Mi chiamo Giorgio, come lei; di soprannome faccio Giuseppino, come lei; ho un fratello di nome Filippino, come il suo: e badi che per averlo ho dovuto sacrificare mia sorella Vittoria Emanuela, alla quale volevo tanto bene. E con tutto ciò i pesci mi schivano come se avessi la scarlattina. Non mi dirà che è cambiata ancora la parola d’ordine!