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― Bravo, così quello si crede di aver trovato l’America nel mio giardino. Un paio di bastonate ogni tanto, gliele ha date? Glielo ha messo un quattro sul registro?

― Quale registro, commendatore?

― Sicché lei non tiene neanche il registro. Immagino che lei sia per i sistemi moderni, immagino. Caro Fortunino, ci vuole severità con le piante. Disciplina. Autorità, mi spiego? Stia a vedere.

Il commendator Mambretti acchiappa un bastone, lo nasconde dietro la schiena e si avvicina al pero che, se potesse, si metterebbe a cantare: Sento l’orma dei passi spietati.

― E così, ― dice Mambretti, ― facciamo i capricci, eh? Ci siamo messi in testa delle cosine sbagliate, vero?

― Ma, ― lo interrompe Fortunino, — Commendatore...

― Zitto, lei! Chi è il padrone qua dentro?

― Il commendator Mambretti.

― Ecco, bravo. E siccome sono il padrone, adesso userò il bastone.

E giù tortorate sul tronco del pero che perde tutti i fiori per lo spavento.

― Così basterà, ― dice il commendator Mambretti, buttando il bastone per asciugarsi il sudore della fronte. ― Non bisogna neanche esagerare. Una cosa giusta. Vedrà domani mattina, che belle perine metterà fuori il nostro amico.

Il povero Fortunino vorrebbe ribattere che ormai quel pero non darà più frutti, né domani né tra sei mesi, perché ha perso i fiori. Ma siccome non è tanto svelto a parlare, prima che lui apra bocca, il commendator Mambretti è già rientrato in casa.

― Pazienza, ― mormora Fortunino, ― ma cosa succederà domani? Poco ma sicuro che il commendatore si arrabbierà e al pero toccherà un’altra razione di bastonate.

Ci pensa tutto il giorno e finalmente gli viene un’idea per salvare l’innocenza. Va a casa, apre il salvadanaio e corre in città, in un negozio di primizie che lui conosce, dove si trovano pere d’ogni stagione. Ne compra un paio di chili, aspetta che faccia buio, torna in giardino e appende ai rami quelle bellissime pere, una per una, ma non a casaccio, bensì con ordine e fantasia, perché l’occhio vuole la sua parte; un frutto qua, solitario nel suo splendore, là una coppia di gemelli, su quell’altro ramo tre pere, due più grosse e una più piccola, che sembrano una pacifica famigliola a passeggio sul corso.

Viene mattina, viene il commendatore a ispezionare il giardino e si frega le mani per la contentezza: ― Ha visto? Ha visto? Caro Fortunino, ecco le più belle pere che si siano mai dondolate su una pianta a sud di Verona e a nord di Pistoia. E saranno anche le più buone, perché son le pere del bastone. Le colga, le porti alla mia signora e si ricordi che con gli alberi le maniere troppo delicate non servono. Bisogna esigere obbedienza cieca, pronta e assoluta. E se non rigano dritto, castigare. Ha capito quante sono le ore?

Il buon Fortunino arrossisce e china il capo. Non può dire la verità; di dire bugie la sua bocca si rifiuta. È meglio che stia zitto. Del resto per oggi il commendatore è soddisfatto. Poi si vedrà.

Un’altra mattina il commendatore Mambretti va in giardino e vuole delle rose.

― Di quelle bianche, ― dice a Fortunino, ― perché sono per mia suocera, che si chiama Bianca. Afferra il pensiero gentile?

― Sì, commendatore, ― risponde il giardiniere, ― però guardi che le rose bianche non sono ancora fiorite.

― Non sono fiorite? E come si permettono? Lo sanno o non lo sanno che il padrone sono io?

― Vede, commendatore...

― Non vedo niente. Non sento niente. Non voglio saper niente. Mi porti la frusta.

― Non vorrà mica... frustare quella povera piantina?

― Che piantina e piantina. E grande abbastanza per capire il suo dovere. I caratteri vanno piegati da giovani. Chi ama, castiga. Dia qua.

― Oh, povero me...

― Cosa c’entra lei? Non voglio mica frustare lei, ci mancherebbe. Le voglio solo mostrare come si fa a convincere le rose a fiorire quando il padrone lo desidera, e non di testa loro, a capriccio e alla rinfusa.

Mentre il commendator Mambretti frusta la rosa, Fortunino si copre gli occhi. Ha sentito dire: occhio non vede, cuore non duole. Ma il cuore gli duole lo stesso.

― Ecco fatto. Vedrà che bella fioritura, domani mattina, la nostra signorinetta. Energia, ci vuole. Comprende Fortunino. Polso. Mano di ferro.

Rimasto solo, Fortunino consola la rosa dicendole tante belle paroline, sicuro che in qualche modo lei capirà. Le mette anche un paio di aspirine tra le radici: magari le fanno passare il bruciore. Ma poi è da capo a dodici: ― Che cosa succederà domani?

Il guaio è che non ha un altro salvadanaio da rompere. Deve per forza prendere la bicicletta e correre dal cognato a farsi prestare un cinquemila lire.

― Mi dispiace, ― dice il cognato Filippo, ― proprio stamattina ho pagato la rata del televisore. Mi sono rimaste appena mille lire. Se ti servono...

― Grazie, ― dice Fortunino, sospirando. Per mettere insieme cinquemila lire deve far visita successivamente al cugino Riccardo, al cugino Radamès (così chiamato in onore del maestro Giuseppe Verdi, autore dell’opera Aida), alla cugina Bertolina, che gli fa una conferenza sull’ulcera allo stomaco, alla zia Benedetta, che lo interroga a lungo sulla differenza tra un normale lassativo e le supposte di glicerina, alla zia Enea (così chiamata per errore: suo padre credeva che Enea fosse un nome femminile). Riesce ad arrivare in tempo dal fioraio in città per comprare cinque rose bianche della Riviera, Pagando anche l’Iva. Torna di notte nel giardino, lega le rose alla piantina e intanto le sussurra: ― Speriamo che gli bastino, a Quello là. Io di più non te ne ho potute comprare; sai bene cosa succede con i prezzi di questi tempi. Anche il commendator Mambretti ha aumentato gli accessori per cavatappi.

Ma al commendator Mambretti cinque rose non bastano.

― Avevo detto due dozzine!

― Ma no che non l’aveva detto, signor commendatore.

― Cos’è, si mette anche a contarmi le parole in bocca, adesso? Stia al suo posto, lei. E mi dia la frusta.

― No, per carità, la frusta no!

― La frusta si, invece.

Il commendator Mambretti va a prendersi la frusta da solo, e giù colpi alla rosa. Poi, dal momento che ci si trova, castiga una tuja perché è diventata tutta gialla da una parte, bastona un cipresso perché ha un ramo storto, legna un pino perché ha fatto le pigne troppo in alto e non si arriva a prenderle nemmeno con la scala.

― E questo salice piangente, perché non piange? E questo abete, perché rimane così bassetto? E questo cedro del Libano si decide o no a fare i cedri?

― Basta, basta! ― lo implora Fortunino con le lacrime agli occhi.

― Basta sì, ― urla il commendator Mambretti, ― basta con lei e con il maestro Verdi! Lei è licenziato. Può passare alla cassa.

Fortunino, ormai, piange al posto del salice. Malissimo, perché le lacrime gli impediscono di vedere la cassa, sbaglia un sacco di uffici e tutti lo cacciano via.

― Domani, ― grida il commendatore, rivolto agli alberi, cespugli e fiori del suo giardino, ― tornerò a vedervi; e guai a voi se non avrete messo giudizio. Ma lo zero in condotta non ve lo leva nessuno.

Cade la sera. Cade anche la notte (quando è il suo momento, non un minuto prima o dopo). Il giardino si nasconde nel buio e nel silenzio. Ma sottoterra, dove le radici si allungano e si aggirano, si aggrovigliano e si confondono, intrecciando in ogni senso le loro ramificazioni, spingendo i fittoni a diverse profondità, nasce una fitta cospirazione di sussurri misteriosi. E laggiù che i vegetali parlano tra loro, si scambiano informazioni e propositi, si comunicano decisioni e progetti. Un popolo sepolto, creduto morto o trattato come tale, è invece ben vivo, fin nei minimi peluzzi radicali.

Tutta notte prosegue l’invisibile agitazione, non disturbata dagli andirivieni dei topi, dal lavorìo delle larve, dai vermi che debbono farsi passare nel corpo la terra per spostarsi.