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La mattina il commendator Mambretti scende in giardino, armato di fiere intenzioni e di un nervo di bue. Egli si guarda intorno senza sospetto alcuno. La sua prima occhiata, naturalmente, è per la rosa.

― Niente fiori, ― egli constata. ― Benone. Naturale. Io sono il fesso che parla solo per muovere la lingua. Io parlo turco, eh? Ma tu ti sei sbagliata, carina. Con me tutti, prima o poi, debbono cedere.

Così dicendo il commendator Mambretti agita minacciosamente la sua arma e si avvicina alla pianticella per darle una lezione. Ma al secondo passo che fa, inciampa in una radice che il salice ha spinto a fior di terra al momento giusto. Si aggrappa alla rosa per non cadere, e quella caccia fuori una spina lunga come un coltello, che gli graffia profondamente la mano. Il pino, senza chiedere aiuto al vento, si scuote ben bene i rami più alti e lascia cadere una pigna da mezzo chilo in testa al nominato Mambretti. La pigna si spacca, i pinoli rotolano allegramente sul sentiero, accorre uno scoiattolo e ne fa la raccolta.

Il commendatore si rialza per scagliarsi contro il pino: ― Insolente, avrai la tua parte.

Il pino gli cala in testa un’altra pigna. Poi una terza. Una quarta, anche più grossa. Il commendator Mambretti è costretto a battere in ritirata; del che approfitta un cipresso deodara per fargli lo sgambetto col suo ramo più basso. Il Mambretti giace di nuovo a terra, ma stavolta sulla schiena. Il pero, non potendo fare altro, gli scrolla negli occhi una cicala morta.

― Allora è una congiura! ― grida il commendator Mambretti ― è una rivolta a mano armata, è l’ammutinamento del Bounty!

Per tutta risposta un abete gli fa piovere in bocca una manciata di aghi. Il commendatore impiega venti minuti a sputarli tutti.

― La vedremo! ― ricomincia a gridare, appena può. ― Vi estirperò come la gramigna; vi farò a pezzetti e pezzettini e vi brucerò sul fuoco. Di voi non resterà neanche il seme!

Una macrocarpa allunga un paio di rami e lo acchiappa per il collo, come se volesse strangolarlo, ma si accontenta di farlo star zitto e di tenerlo ben fermo intanto che la mimosa gli fa il solletico sotto il naso.

Il commendator Mambretti si libera dalla presa con uno strattone e fugge gridando: ―Aiuto! Aiuto! Fortunino!

― Io non ci sono, ― risponde Fortunino, che si gode lo spettacolo arrampicato sul muro di cinta. ― Si ricorda mica che mi ha licenziato? E adesso con i soldi della liquidazione vado al cinema.

Il commendator Mambretti rientra in casa, chiude la porta e tira il catenaccio. Poi corre alla finestra a guardare. Il giardino è calmo come mai. Gli alberi se ne stanno lì a vegetare, facendo finta di niente.

― Che razza di impostori, ― borbotta il Mambretti. Poi va in bagno a mettersi tre o dodici cerotti.

Strani casi della Torre di Pisa

Una mattina il signor Carletto Palladino è lì, come sempre, ai piedi della Torre di Pisa a vendere ricordini ai turisti, quando una grande astronave d’oro e d’argento si ferma in cielo e dalla sua pancia esce un coso, un elicottero forse, che scende sul prato detto dei miracoli.

― Guardate! ― esclama il signor Carletto.

― Gli invasori spaziali!

― Scappa e fuggi, ― strilla la gente, in tutte le lingue.

Ma il signor Carletto non scappa, né fugge, per non abbandonare la cassetta posata su uno sgabello, nella quale, bene allineati - cioè, tutti storti - stanno tanti modellini della torre pendente, in gesso, marmo e alabastro.

― Souvenir! Souvenir! ― comincia a gridare, indicando la sua merce agli spaziali, che sbarcano, in numero di tre, ma salutano con dodici mani, perché ne hanno quattro a testa.

― Venite via, sor Carletto, ― gridano le altre venditrici di ricordini da lontano, fingendo preoccupazione per la sua vita; in realtà sono gelose, ma ad avvicinarsi per vendere anche loro agli spaziali le belle statuine, hanno paura.

― Souvenir!

― Bono, pisano, ― dice una voce spaziale. ― Prima le presentazioni.

― Carletto Palladino, piacere.

― Signore e signori, ― continua la voce, con un’ottima pronuncia italiana, ― chiediamo scusa per il disturbo. Veniamo dal pianeta Karpa, che dista dal vostro trentasette anni luce e ventisette centimetri. Contiamo di fermarci pochi minuti. Non dovete aver paura di noi, perché siamo qui per una missione commerciale.

― Io l’avevo bell’e capito, ― fa il signor Carletto. ― Tra uomini d’affari ci s’intende subito.

Mentre la voce spaziale, amplificata da un invisibile altoparlante, ripete più volte il messaggio, turisti, venditori di ricordini, ragazzi, curiosi, sbucano dai loro nascondigli e si fanno avanti, incoraggiandosi a vicenda. Arrivano, con accompagnamento di sirene, poliziotti, carabinieri, pompieri e vigili urbani, per ragioni di ordine pubblico. Giunge pure il sindaco, in groppa a un cavallo bianco.

― Cari ospiti, ― dice il sindaco, dopo tre squilli di trombe, ― siamo lieti di darvi il benvenuto nell’antica e famosa città di Pisa, ai piedi del suo antico e famoso campanile. Se fossimo stati avvertiti del vostro arrivo, vi avremmo preparato accoglienze degne dell’antico e famoso pianeta Karpa. Purtroppo...

― Grazie, ― lo interrompe uno dei tre spaziali, agitando due delle sue quattro braccia. ― Non vi disturbate per noi. Avremo da fare per un quarto d’ora al massimo.

― Volete lavarvi le mani? ― domanda il sindaco. ― Per l’appunto vi ho portato alcuni biglietti omaggio per l’albergo diurno.

I tre spaziali, senza più dargli retta, si dirigono verso il campanile e cominciano a palparlo, come per accertarsi che sia vero. Adesso parlano tra loro, in una lingua abbastanza simile al caracalpacco, ma non dissimile dal cabardino-balcarico. I loro volti, nello scafandro, sono degli autentici volti karpiani, molto somiglianti ai pellirossa.

Il sindaco gli si avvicina premuroso:

― Non desiderate prendere contatto con il nostro governo, con i nostri scienziati, con la stampa?

― Perché? ― ribatte il capo degli spaziali. ― Non vogliamo dar noia a tanta gente importante. Ci prendiamo la torre e ripartiamo.

― Vi prendete... che cosa?

― La torre.

― Scusi, signor karpiano, forse ho capito male. Lei vuol dire che le interessa la torre, magari che lei e i signori suoi amici vogliono montare in cima per godere il panorama e intanto, per non perdere tempo, fare qualche esperimento scientifico sulla caduta dei gravi?

― No, ― risponde pazientemente il karpiano. ― Siamo qui per prendere la torre. Dobbiamo portarla sul nostro pianeta. Vede quella signora li? ― (il capo spaziale indica uno degli altri due scafandri) ― Quella lì è la signora Boll Boll, che abita nella città di Sup, a pochi chilometri dalla capitale della Repubblica karpiana del Nord.

La signora spaziale, sentendo il suo nome, si volta vivacemente e si mette in posa, sperando di essere fotografata. Il sindaco si scusa di non saper fare fotografie e batte sempre sullo stesso chiodo: ― Cosa c’entra la signora Boll Boll? Qua si tratta che voi, senza il permesso dell’arcivescovo e del sovrintendente alle belle arti, la torre non la potete neanche toccare, altro che portarla via!

― Lei non capisce, ― spiega il capo spaziale. ― La signora Boll Boll ha vinto la Torre di Pisa nel nostro grande concorso Eric. Acquistando regolarmente i famosi dadi per il brodo Eric, essa ha raccolto un milione di buoni-punto e le spetta il secondo premio, che consiste, per combinazione, nella torre pendente.

― Ah, ― riconosce il sindaco, ― ottima idea!

― Veramente noi lo diciamo in un altro modo. Noi diciamo: Che idea chic il brodo Eric!

― Ben detto. E il primo premio in che cosa consiste?