Asa Holcomb aveva diretto il raggio della sua lampada di segnalazione verso la città, accendendo e spegnendo il raggio a intervalli regolari, lassù, alla sommità della mesa vicina alle Montagne della Superstizione. Dopotutto, teoricamente lui avrebbe dovuto tentare di salvare la propria vita. Ma poi si era stancato di quel dovere, e aveva spento la lampada, e aveva nuovamente rivolto lo sguardo verso il cielo stellato, una prateria scintillante di purissimi diamanti, nel momento dell'eclisse totale; guardò le stelle ammiccanti, e le riconobbe una per una, senza sforzo, e poi di nuovo si smarrì nella contemplazione della Luna cinerea oscurata dall'ombra della Terra, sospesa lassù in primo piano, simile a un grande emblema Hopi battuto da un gigantesco fabbro da un blocco d'argento annerito dal tempo. C'era sempre qualcosa di nuovo da vedere e scoprire, nell'immutabile cielo notturno. Sarebbe stato facile, per lui, rimanere disteso là per tutta la notte a scrutare il cielo, senza conoscere un solo momento di noia. Ma il senso di debolezza e di malessere si stava facendo più forte, e la roccia, sotto di lui, si era fatta più fredda, molto più fredda.
Pepe Martinez e 'High' Bundy si alzarono dai loro cuscini, e scivolarono come foglie d'autunno verso la vecchia parete di mattoni del tetto di Harlem. Pepe disse, indicando con un gesto languido la Luna:
«Un'altra boccata e poi… puff! Sarò lassù, proprio come John Carter.»
«Non dimenticare la tuta spaziale,» disse 'High'.
«Mi riempirò i polmoni del fumo dell'erba,» disse Pepe, «E respirerò con quello.» Fece un gesto verso le stelle. «Cosa dice quella grande tavola nera di pubblicità di gioielleria, "High"?»
'High' disse:
«Tavola! Quelle sono motociclette, amico, e ciascuna ha un faro di diamante, e vanno tutte in tutte le direzioni!»
Arab, ancora sdraiato sul suo cuscino, davanti alla tenda, intento a trangugiare qualche goccia di moscato da una bottiglia di liquore, li chiamò:
«E come è la notte, o figli miei?»
Pepe rispose:
«Bella come un serpente di seta, o padre mio.»
La Luna continuava a galleggiare nello spazio cosmico, attraversando lentamente l'ombra fredda e silenziosa della Terra, muovendosi con il suo passo costante e calmo di quaranta miglia al minuto, irrevocabilmente come il sangue che filtrava nel petto di Asa Holcomb, o come gli spermatozoi che si muovevano avidamente nelle reni di Jake Lesher, o come gli ormoni che fluivano dalle ghiandole adrenali di Don Guillermo, o come gli atomi che si dividevano per scaldare le caldaie della Principe Carlo, o come le onde che trasmettevano le loro immagini in codice nella caverna di Spike Stevens, o come il subcosciente di Wolf Loner che apriva e chiudeva le sue finestre seguendo il ritmo che egli chiamava sanità mentale. La Luna aveva fatto questo un miliardo di anni prima; e in futuro l'avrebbe fatto ancora per un miliardo di anni. Un giorno, dicevano gli astronomi, oscure forze di marea l'avrebbero lacerata, trasformandola in un fenomeno cosmico simile agli scintillanti, multicolori anelli di Saturno. Ma questo, dicevano gli astronomi, era un evento che distava ancora cento miliardi di anni.
CAPITOLO VI
Paul Hagbolt diede una gomitata di avvertimento a Margo Gelhorn, nervosamente, per far tacere la risatina sommessa della giovane donna, quando una donna nella seconda fila domandò a Doc:
«Cos'è quell'iperspazio dal quale, secondo lei, i pianeti potrebbero venir fuori?»
«Sì, perché non ci fornisce un quadro d'assieme facilmente comprensibile?» suggerì il Barba, con un tono degno di un consumato moderatore televisivo.
«È una nozione già comparsa negli studi di fisica teorica, e in moltissime opere di fantascienza.» Doc si lanciò nella spiegazione, aggiustandosi gli occhiali sul naso, e poi passandosi la mano sulla testa pelata.
«Come voi tutti sapete, la velocità della luce è generalmente accettata come la massima velocità possibile. Centottantaseimila miglia al secondo, circa duecentonovantanovemila chilometri, sembrano una velocità enorme, ma si tratta di un'andatura da tartaruga, quando viene applicata alle vaste distese che separano le stelle e i golfi cosmici ancor più sconfinati che dividono le galassie… una prospettiva proibitiva e deludente, per i viaggiatori spaziali.
«Però,» proseguì Doc, «Esiste la possibilità teorica che lo spazio-tempo venga così distorto, curvato o compresso, che remotissime parti del nostro cosmo giungano a toccarsi in un'altra e più alta dimensione… nell'iperspazio, ed è questa l'origine della parola. O perfino che tutte le parti siano in contatto con tutte le altre parti. Se esiste questo contatto universale, perciò, i viaggi più veloci della luce sarebbero teoricamente possibili a un ipotetico veicolo che uscisse dal nostro universo, penetrasse nell'iperspazio, e poi ritornasse nell'universo normale nel punto desiderato. Naturalmente, il viaggio iperspaziale è stato suggerito, come possibilità teorica, solo per delle astronavi, ma io non vedo perché un pianeta equipaggiato nella maniera adatta non possa riuscirci a sua volta… sempre in linea teorica. Scienziati autorevoli come Bernal, e filosofi come Stapledon, hanno teorizzato sulla possibiltà di pianeti vagabondi, per non parlare di scrittori come Stuart e Smith.»
«Teoria!» sbuffò Bacchetto, aggiungendo sottovoce, «Tutto fumo!»
«Cosa può rispondere a questa obiezione?» domandò il Barba a Doc, portando la domanda sul palco con perfetta imparzialità. «Esistono prove concrete dell'esistenza dell'iperspazio, o del viaggio nell'iperspazio?»
Oltre Doc, la Turbantessa fissò con curiosità i due compagni.
«Neppure un briciolo,» disse Doc, con un sorriso. «Ho cercato di indurre i miei amici astronomi a cercare qualche indizio, ma non mi prendono molto sul serio.»
«Questo è interessante,» disse il Barba. «Per esempio… quale forma potrebbero assumere gli indizi di cui ha ventilato la possibilità?»
«Ci ho pensato molto,» ammise Doc, con un certo orgoglio. «Un'idea che mi ha particolarmente colpito, durante queste riflessioni, è che la spinta necessaria a far entrare e uscire un'astronave dall'iperspazio potrebbe includere la creazione di campi gravitazionali artificiali momentanei… dei campi così intensi, che essi potrebbero distorcere visibilmente la luce stellare che passasse attraverso quel volume di spazio. Così ho suggerito ai miei amici astronomi di osservare se certi fenomeni si verificano… di stare, particolarmente, in attesa che le stelle ondeggino e mutino posizione apparente, nelle notti chiare di visibilità buona… e specialmente se il fenomeno fosse avvistato dai telescopi montati sui satelliti artificiali… e di cercare, attraverso delle foto stellari a breve esposizione, la prova del verificarsi dello stesso fenomeno… stelle che scompaiano per qualche istante, o si spostino nel cielo, o presentino improvvise e momentanee variazioni di velocità, o irregolarità di movimento».
La donna sottile della seconda fila disse:
«Ho visto sul giornale un articolo, che parla di un tizio che ha visto muoversi le stelle. Questa sarebbe una prova?»
Doc ridacchiò:
«Temo di no. Non era ubriaco? Non dobbiamo prendere troppo sul serio questi servizi giornalistici che popolano i quotidiani nella stagione morta.»
Paul avvertì simultaneamente un brivido gelido lungo la schiena, e la pressione delle dita di Margo sul suo braccio.
«Paul,» mormorò lei, in tono urgente. «Doc non sta descrivendo esattamente quello che tu hai visto in quelle quattro fotografie?»
«Sembra molto simile,» temporeggiò lui, cercando di chiarire per prima cosa il caos che si era scatenato nella sua mente. «Molto simile.» Poi, meditabondo: «Ha usato la parola 'distorcere'.»
«Be', allora?» domandò Margo. «Doc ha offerto una spiegazione possibile o no?»