Paul domandò, con voce quasi fanciullesca.
«Tigerishka, perché non sei tornata sul Vagabondo? È già passato molto tempo, da quando ha lampeggiato il Richiamo Rosso. Tutte le altre astronavi saranno già tornate.»
Dalle tenebre che avvolgevano il pannello di comando, dove nessun raggio di luce, né del Vagabondo né dello Straniero, la toccava, Tigerishka rispose:
«Non è ancora il momento.»
In un tono quasi querulo Don disse:
«Paul e io non faremmo meglio a salire sul Baba Yaga? Posso manovrare i comandi attraverso l'atmosfera, compiendo le operazioni di frenaggio, dato che non c'è alcuna velocità orbitale da annullare, ma sarà rischioso, e se dobbiamo aspettare molto…»
«Non è ancora il momento neppure per questo!» disse Tigerishka. «C'è qualcosa che devo chiedervi, prima di lasciarvi. Voi siete stati salvati dallo spazio e dalle onde. Avete un debito con il Vagabondo.»
Si fece avanti, sporgendo la testa dalle tenebre, e il suo profilo viola e verde si stagliò nella luce dei pianeti.
«Allo stesso modo in cui vi ho mandati sulla Terra,» cominciò lei, sommessamente, «Ora vi manderò entrambi sullo Straniero, per testimoniare a favore del Vagabondo. Mettetevi al centro, fianco a fianco, e di fronte a me.»
«Vuoi dire che noi dobbiamo parlare in vostro favore?» domandò Paul, mentre lui e Don eseguivano quasi automaticamente, senza chiedersi quale fosse stata l'origine del nome dato al nuovo pianeta. «Dobbiamo dire che le vostre astronavi hanno fatto tutto il possibile, per salvare gli esseri umani e le loro case? Ricorda che ho visto moltissime catastrofi che non sono state evitate… molto più dei salvataggi, anzi.»
«Racconterete soltanto le vostre storie… la verità, come entrambi la conoscete,» disse Tigerishka, girando il capo, in modo che i suoi occhi viola parvero scintillare. «Ora stringetevi la mano, e non muovetevi. Oscuro completamente questo disco volante. I raggi che vi trasmetteranno saranno neri. Questo viaggio sarà per voi infinitamente più reale di quello sulla Terra. I vostri corpi non lasceranno il disco volante, ma vi sembrerà il contrario. State fermi!»
Le stelle si oscurarono, la Terra diventò nera, le scintille viola gemelle degli occhi di Tigerishka si spensero. Poi parve loro che un turbine di vento aprisse nelle grandi tenebre una porta nascosta, e Don e Paul vennero lanciati ruotando, attraverso lo spazio, veloci quasi come il pensiero… un secondo, due… poi furono in piedi, mano nella mano, al centro di un'immensa pianura, apparentemente sconfinata, piatta come il deserto di sale vicino al Gran Lago Salato, ma scintillante e riverberante di grigio argento, e torrida di un calore che essi non potevano avvertire.
«Credevo che sarebbe apparso rotondo,» disse Paul, dicendosi a ripetendosi che in realtà lui era all'interno del disco volante, senza riuscire a convincersi di questa realtà.
«Il Pianeta Inseguitore è più grande della Terra, ricordalo,» replicò Don. «Ed è impossibile vedere la curva terrestre, quando si è sulla superficie.» Stava ricordando, in quel momento, l'orizzonte vicino e racchiuso della Luna, ma soprattutto pensava alla somiglianza enorme tra questa esperienza e il suo volo di sogno attraverso il Vagabondo… e si chiese se il metodo seguito allora non fosse stato lo stesso.
Il cielo era un emisfero punteggiato di stelle, dominato dal riverbero del sole. A pochi diametri dal sole, la Terra galleggiava oscura, circondata da una sottile falce bluastra. Sopra l'orizzonte di torvo metallo si ergeva il Vagabondo, solo una metà del disco già spuntata, cinque volte più grande della Terra, ora, enorme, ma con il grande occhio giallo tagliato in due dalla argentea linea dell'orizzonte, così che esso pareva guatare più fieramente, quasi socchiudendo le palpebre.
«Credevo che saremmo stati proiettati all'interno,» disse Paul, indicando la torva superficie metallica ai loro piedi.
«A quanto pare, bloccano anche le immagini, per sottoporle alle loro ispezioni doganali,» replicò Don.
Paul disse:
«Be', se siamo delle onde radio, queste onde trasportano anche la nostra percezione.»
«Tu dimentichi che siamo ancora a bordo del disco,» fece Don.
«Ma allora, quale strumento vede tutto questo, e trasmette l'immagine al disco?» volle sapere Paul. Don scosse il capo.
Un lampo bianco esplose sulla pianura metallica, tra loro e l'emisfero violetto e giallo del Vagabondo. Svanì istantaneamente, poi ci furono altri due lampi, più lontano.
Paul pensò, La lotta è cominciata.
«Meteoriti!» esclamò Don. «Qui non c'è un'atmosfera che li possa fermare.»
In quell'istante, essi discesero attraverso la superficie di metallo, e si trovarono nelle tenebre. Le tenebre durarono solo un istante, un breve lampo nero… e poi si trovarono sospesi al centro di un'immensa sala sferica, immersa nella penombra, che aveva pareti e pareti e pareti di grandi occhi che guardavano all'interno.
Fu quella la prima impressione. La seconda fu che le losanghe disegnate non fossero occhi veri e propri, ma oblò neri, circondati da anelli dei colori più varii. Eppure insieme a questo giunse la sgradevole impressione che occhi di tutti i generi stessero osservando, attraverso quegli oblò simili a pupille.
Don e Paul, quasi contemporaneamente, ebbero dei veloci lampi di ricordi, stranamente uguali… l'impressione di essere accompagnati nello studio del preside, alla scuola media.
Don e Paul non erano soli in quell'immensa camera. Sospesi qua e là, insieme a loro, al centro della sfera, c'erano almeno cento esseri umani, o piuttosto le loro immagini tridimensionali… un'incredibile riunione di umanità. C'erano persone di tutte le razze, uniformi di paesi asiatici e africani, due uniformi dell'Astronautica Sovietica, un Maori dalla pelle nera e lucida, un arabo dal bianco velo, un indiano seminudo, una donna in pelliccia, e molti, moltissimi altri che potevano essere scorti solo di sfuggita, a causa delle altre figure che si frapponevano tra gli osservatori e loro.
Un argenteo raggio di luce, sottile come uno spillo, uscì da un punto accanto a uno degli oblò neri, e si allungò verso l'estremità opposta del campionario umano… mentre gli oblò scintillavano, come se occhi attenti fossero stati dietro di essi… e d'un tratto qualcuno cominciò a parlare rapidamente, ma con estrema calma, dal punto toccato dall'ago d'argento nel gruppo degli umani… o almeno così sembrava. Al suono della voce, Don provò un brivido, perché la riconobbe.
«Mi chiamo Gilbert Dufresne, Tenente, Astronautica degli Stati Uniti. Di servizio sulla Luna, ho lasciato il satellite a bordo di un'astronave monoposto per compiere una ricognizione del pianeta alieno, nello stesso momento in cui è cominciato il lunamoto. Per quello che so, i miei tre compagni sono morti durante la rottura della Luna.
«Ho iniziato un'orbita lunare est-ovest, e ben presto ho avvistato tre enormi astronavi a forma di ruota. Dei raggi di trazione di natura ignota hanno preso il controllo della mia astronave, a quel punto, e ci hanno attirati all'interno di una delle astronavi. Là ho incontrato una varietà di esseri alieni. Sono stato interrogato, penso, in virtù di un tipo a me ignoto di esplorazione mentale, e i miei bisogni fisici sono stati soddisfatti. Più tardi sono stato condotto sul ponte, o cupola di comando, dell'astronave, dove mi è stato permesso di osservarne il funzionamento e le operazioni.
«L'astronave si era allontanata dalla Luna, ed era sospesa sulla città di Londra, che era inondata dall'alta marea. Dei raggi, o un campo di forza a me sconosciuto, lanciati dalla nostra astronave, hanno respinto la massa d'acqua. Mi è stato chiesto di salire a bordo di una piccola astronave, in compagnia di tre alieni. Questa astronave è discesa, fermandosi nell'aria vicino alla sommità di un edificio che ho riconosciuto come il British Museum. Sono entrato in uno degli ultimi piani, accompagnato da uno degli esseri alieni. Là l'ho visto far rivivere cinque uomini che, a mio avviso, erano certamente morti quando siamo entrati. Poi siamo risaliti a bordo della piccola astronave, e dopo numerosi episodi analoghi siamo ritornati a bordo della grande astronave.