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«Da Londra ci siamo spostati a sud, verso il Portogallo, dove la città di Lisbona era stata rasa al suolo da tremende scosse telluriche. Là ho visto…»

Mentre Dufresne continuava a parlare, Paul (che non l'aveva mai visto, pur avendo sentito parlare spesso di lui) cominciò a provare la sensazione che, per quanto le parole dell'uomo potessero essere veritiere, esse erano inutili, prive di valore… un fatuo chiacchierare sul margine di grandi eventi che irrevocabilmente si muovevano sulla loro strada. Gli oblò parevano osservare con cinico disprezzo, o meglio, parevano ricoperti da una fredda noia serpentina. Occhi impassibili di rettili annoiati. Il preside della scuola media stava ascoltando quella storia sincera e dettagliata senza udirla realmente, con la mente distratta da grandi decisioni.

Apparentemente questo presentimento fu una valida intuizione, perché, senza un altro preavviso, l'intera scena svanì, e fu istantanemanete sostituita dall'interno del disco volante a lui così familiare, più piccolo, più comodo, più luminoso, verde nel pavimento e nel soffitto, ora; e c'era Tigerishka, davanti al pannello nascosto dai fiori, che diceva:

«È inutile. Il nostro appello è stato respinto. Salite a bordo della vostra astronave, e ritornate sul vostro pianeta. Presto! Toglierò il contatto non appena sarete a bordo del Baba Yaga. Grazie per il vostro aiuto. Addio e buona fortuna, Don Merriam. Addio, Paul Hagbolt.»

Un circolo di pavimento verde si sollevò. Senza dire una parola, Don si calò a testa in giù nel portello, e cominciò ad avanzare all'interno del tubo.

Paul guardò Tigerishka.

«Sbrigati,» disse lei.

Miao si avvicinò cautamente. Paul si chinò, e quando la gattina lanciò un'occhiata a Tigerishka, la prese in mano, bruscamente. Facendo un passo verso il portello, accarezzò il pelo grigio. La sua mano rallentò e si fermò, nel mezzo della carezza, ed egli si voltò.

«Io non vado,» disse.

«Devi farlo, Paul,» disse Tigerishka. «La Terra è la tua patria. Presto.»

«Rinuncio alla Terra e alla mia razza,» rispose lui. «Voglio restare con te.» Miao si dibatté, nella sua mano, cercò di andarsene, ma lui la tenne stretta.

«Ti prego, vattene subito, Paul,» disse Tigerishka, finalmente voltandosi, e muovendosi, verso di lui. Lo guardava fissamente negli occhi. «Non potranno mai più esserci rapporti, tra noi.»

«Ma io voglio restare con te, mi hai sentito?» La sua voce fu d'un tratto così forte, e collerica, che Miao fu presa dal panico, e gli graffiò la mano, per liberarsi. La tenne stretta, e continuò, «Anche come il tuo animale domestico, se deve essere così. Ma io resto.»

Tigerishka si fermò, e il suo viso era a pochi centimetri da quello di Paul.

«Nemmeno come mio animale domestico puoi restare,» disse. «L'abisso tra noi non è abbastanza grande, neppure per questo… Oh, Vattene, vattene, stupido!»

«Tigerishka,» le disse, raucamente, guardandola negli occhi violetti. «Sì, il novanta per cento di quello che hai provato questa notte era fatto di pietà e di noia. Cos'era l'altro dieci per cento?»

Lei lo guardò, rabbiosa, come se una frenesia di esasperazione si fosse impadronita della sua mente. Repentinamente, muovendosi con una velocità quasi accecante, gli strappò di mano Miao, e lo schiaffeggiò con violenza sul viso. I tre pallidi artigli violetti di quella zampa rosseggiavano per un buon centimetro, quando Tigerishka li ritrasse.

«Questo!» ringhiò lei, scoprendo i canini.

Lui fece un passo indietro, poi un altro, poi si trovò nel tubo. La gravità artificiale, in alto, lo spinse nella galleria, in caduta libera. Guardando in alto, poté vedere la maschera ringhiante di Tigerishka. Il sangue gli colava dalla guancia, e galleggiava in goccioline rosse sull'argentea parete del tubo. Poi il grande portello si chiuse.

CAPITOLO XLII

Gli studiosi dei dischi volanti entrarono a Vandenberg Due senza incontrare ostacoli né fanfare, e in maniera per nulla romantica… sporchi e infangati e laceri e abbattuti.

Non c'era nessuno a vigilare il reticolato, che fino a poco prima era stato sotto metri e metri di acqua salata, nessuno di guardia sul grande cancello, che ora era aperto e traballante… non c'era niente di niente, anzi, a eccezione di dodici centimetri di fanghiglia scivolosa… così essi entrarono, semplicemente, con le loro macchine, quasi tutti a terra per alleggerire i veicoli, e iniziarono la salita che portava all'altopiano.

Hunter era al volante della Corvette. Tutto il sedile posteriore era occupato dalla massa di Wanda, che ne traboccava, anzi, e ansimava affannosamente. Nemmeno Wojtowicz era stato capace di farle superare a urlacci quel nuovo attacco di cuore.

La signora Hixon stava guidando il camion, perché Bill Hixon voleva osservare il cielo, dove il Vagabondo, che mostrava il mandala, e lo Straniero, erano ormai allo zenit… e perché non le importava un accidente, come aveva ripetuto più volte. Era sola nella cabina… Pop avrebbe voluto restare, ma lei gli aveva detto che puzzava più del fango, e il camion era di Bill, e lui non l'avrebbe sopportato.

In fondo al camion c'erano Ray Hanks e Ida, la quale curava sia la gamba di Ray che la sua caviglia gonfia. Non credeva nei sonniferi, e faceva ingerire — e ingeriva — malgrado le deboli proteste di Bill, grandi quantitativi di aspirina.

«Masticale,» diceva a Ray. «Sono tanto amare che non si pensa ad altro.»

Tutti gli altri andavano a piedi. Già per tre volte alcuni di loro avevano dovuto spingere il camion, per fargli superare i punti peggiori, e per due volte il camion aveva dovuto trainare la Corvette, impantanata in pozzanghere più fonde. Tutti erano macchiati di fango, le scarpe erano globi gonfi di fanghiglia; e gli pneumatici del camion erano infangati a loro volta, tanto che le catene non servivano.

Si vide una traccia di colorazione azzurra, nel chiarore combinato dei due pianeti che bagnava il paesaggio fangoso. Harry McHeath, che per la sua età era in grado, come pochi di loro, di tener d'occhio due cose contemporaneamente, esclamò:

«Ricominciano! Lo stanno facendo tutti e due!»

Quattro raggi diritti, sottili e di un azzurro violento si stendevano attraverso la grigia pianura del cielo, dallo Straniero al Vagabondo. Ma ora, invece di passare a una certa distanza, essi convergevano. Eppure non colpivano il Vagabondo, ma si fermavano vicinissimi, lo spazio di un capello di cielo grigio, e venivano respinti in quattro deboli ventagli bluastri.

«Probabilmente colpiscono un campo difensivo,» ipotizzò l'Omino.

«Come le battaglie dei Figli della Lente!» esclamò al colmo dell'eccitazione McHeath.

Tre raggi violetti, assai simili, uscivano dal Vagabondo, diretti verso lo Straniero, e venivano intercettati. I raggi azzurri e violetti si allungavano, s'incrociavano, tra i due pianeti, come un gioco di elastici intrecciati, in una perfetta configurazione geometrica.

«Ci siamo!» gridò Hixon, con forza.

Wojtowicz stava osservando la scena con tanta intensità, che uscì dalla strada. Con la coda dell'occhio, McHeath lo vide cadere e sparire, e corse da quella parte.

«Sto benissimo, ragazzo, sono soltanto scivolato un poco… vedi, posso raggiungerti,» rispose Wojtowicz, in tono rassicurante, alla chiamata ansiosa di McHeath. «Dammi una mano per salire, per favore… non voglio perdere un solo secondo della scena!»