Don Guillermo Walker si disse che l'alveare di deboli luci che aveva appena sorvolato doveva essere Metapa. Ma… essendo il suo talento di navigazione celeste frutto di vanterie ed esagerazioni almeno pari alla sua carriera di attore shakespeariano in Europa… cosa sarebbe accaduto, se le luci fossero state invece quelle di Zapata o di La Libertad? Sarebbe stato ancor meglio, forse; mancando di gran lunga il suo bersaglio, sarebbe sfuggito anche alla tortura. Aveva il viso e la schiena coperti di sudore. Avrebbe dovuto radersi, pensò, sentendo il mento e le guance umidi e appiccicosi. I suoi catturatori avrebbero detto, torturandolo nella cella fumante, che la barba dimostrava che lui era un comunista castrista, e i suoi documenti della John Birch Society erano stati falsificati, o peggio. E così avrebbero bruciato la barba dal suo viso con la electricidad!
«Accidenti a te, sei stata tu a mettermi in questo pasticcio, brutta puttana in sottoveste, brutta cagna negra!» gridò Don Guillermo alla luna enorme, e al suo fosco disco arancione.
La Principe Carlo e la Pazienza, l'imbarcazione del navigatore solitario, percorrevano le loro rotte divergenti attraverso la massa dell'Atlantico. Quasi tutti i passeggeri giovani erano andati ai loro appuntamenti, con il sonno o con i partner o le partner scelti per la notte, ma il capitano Sithwise stava facendo il suo turno di guardia sul ponte. Provava una bizzarra sensazione di disagio. Si disse che doveva essere colpa della presenza di quei rivoluzionari a bordo: quel branco di conquistatori d'imperi produceva simili pazzi effetti… come se respirassero, ed emettessero, dell'etere.
Wolf Loner era cullato dalle braccia dell'oceano, e il suo cuscino era un miglio di acqua salata. Il banco di nubi, sotto il cui bordo orientale la Pazienza era entrata, era molto vasto, e lunghe scie di nebbia lo seguivano, e si stendeva fino a Edmond e al Great Slave Lake, e da Boston fino a nord, raggiungendo lo Stretto dell'Hudson.
Sally Harris concesse a Jake Lesher un altro sfogo di carezze e più pesanti attenzioni tattili, in una curva buia della Casa degli Orrori, ma lo ammonì:
«Ehi, non spiegazzarmi la gonna… usa la cerniera automatica sul fianco.»
«Anche le tue mutandine sono chiuse magneticamente?» domandò Jack.
«No, ma c'è un piccolo congegno che le fa sparire. Fai piano, adesso… e per l'amor di Dio, non dirmi che queste ti ricordano le vecchie, buone pagnotte fatte in casa che mamma Lesher cuoceva al forno. E adesso basta, altrimenti il Razzo chiuderà prima che noi abbiamo visto l'eclissi.»
«Sal, non sei mai stata così fissata per l'astronomia prima d'ora, e non abbiamo realmente bisogno degli scossoni di quelle montagne russe. Tu hai le chiavi dell'appartamento di Hasseltine, no?, e lui è partito, no?… e inoltre, non mi hai mai portato lassù. Se quel grattacielo per te non è abbastanzo alto…»
«Questa notte il mio grattacielo è il Razzo,» disse la ragazza. «Basta così, ho detto!»
Con una mossa sinuosa, lei si sottrasse alle mani di Jack, e corse via, passando davanti a un saturniano livido, alto due metri e mezzo, che era uscito a grandi passi da una parte, stringendo un lunghissimo fucile a raggi e inondandola di una luce azzurrina scintillante.
Asa Holcomb, con il respiro un po' affannoso, raggiunse la cima della piccola mesa a ovest delle Montagne della Superstizione dell'Arizona. Proprio in quel momento la parete della sua aorta si ruppe, e il sangue cominciò a filtrargli nel petto. Non ci fu alcun dolore, ma egli avvertì una debolezza strana, e un bizzarro senso di vertigine, e scivolò a sedere silenziosamente sulla roccia levigata e piatta, che conservava ancora un po' di calore della lunga giornata assolata.
Non rimase particolarmente sorpreso, né particolarmente impaurito. La debolezza sarebbe passata, oppure no. Il malore poteva essere passeggero… oppure no. Aveva saputo fin dall'inizio che quella breve arrampicata verso una buona posizione per osservare l'eclissi era una cosa pericolosa. Dopotutto, sua madre lo aveva avvertito che era pericoloso arrampicarsi da solo sulle rocce, settant'anni prima. Doppiamente pericoloso, con un'aorta sottile come carta velina. Ma valeva sempre la pena di correre qualsiasi rischio, pur di allontanarsi da solo, fare una piccola scalata, e osservare i cieli stellati.
I suoi occhi avevano indugiato, un po' malinconicamente, sulle luci della Mesa, ma subito dopo egli li sollevò. Quella sarebbe stata circa la cinquantesima volta in cui lui avrebbe visto la Luna sparire, ma quella notte lei pareva ancor più bella, nella fase di luce ramata, di quanto mai lo fosse stata in passato, molto più della melagrana che Proserpina aveva colto nel Giardino della Morte. La debolezza, il malore, non stavano passando.
CAPITOLO IV
La convertibile che portava Margo Gelhorn e la gatta Miao e Paul Hagbolt sobbalzava lungo la strada sconnessa, con la roccia brulla ed erta di nuovo a destra, la sabbia della spiaggia a sinistra, entrambe, ora, a meno di un metro di distanza. Allontanandosi dall'autostrada, la notte pareva chiudersi intorno a loro come un nero coperchio. I tre viaggiatori avvertivano pienamente, ora, la solitaria oscurità della luna in eclissi che s'inerpicava per i sentieri stellati del cielo. Anche Miao si era messa a sedere sulle zampe posteriori, per guardare avanti con occhi fosforescenti.
«Tra le altre cose, questa strada probabilmente conduce alla porta posteriore di Vandenberg Due,» stava ruminando Paul. «La porta della spiaggia, la chiamano. Naturalmente, io dovrei passare dalla porta principale, ma in un buio così…» Poi, dopo qualche secondo, «È buffo vedere come questi maniaci dei dischi volanti tengano sempre le loro riunioni accanto a qualche base missilistica, o a qualche centrale atomica. Sperano forse che un po' di chiasso e di splendore riesca a filtrare fino a loro, immagino. Sapevi che una volta l'Astronautica era sospettosa, nei loro confronti?»
I fari illuminarono una frana, che bloccava una buona metà della strada. La terra franata era alta fin quasi al cofano della macchina, e recente, a giudicare dall'aspetto umido del terriccio. Paul fermò l'auto.
«Fine della spedizione dei dischi volanti,» annunciò, allegramente.
«Ma gli altri sono andati avanti,» disse Margo, alzandosi di nuovo in piedi. «Vedi laggiù? È in quel punto che hanno aggirato la frana, per proseguire.»
«E va bene,» disse Paul, in tono scherzosamente cavernoso. «Ma se rimarremo bloccati nella sabbia, tu dovrai andare a cercare dei legni portati dalla marea, da mettere sotto gli pneumatici.»
Le ruote girarono a vuoto due volte, ma la convertibile non faticò affatto a mettersi in moto. Poco più avanti, essi ragggiunsero una specie di vallata naturale, o grande caverna, nell'altura, dove la strada si espandeva raggiungendo un'ampiezza almeno tre volte maggiore di prima. Una buona dozzina di automobili avevano usato quello spazio in più per parcheggiare, fianco a fianco, con i parafanghi quasi appoggiati alla parete naturale. Tra coloro che erano arrivati per primi si vedevano una perlina rossa, una utilitaria e un camioncino bianco aperto.
Dopo l'ultima automobile c'era un'altra lanterna verde, che illuminava un cartello vergato in eleganti caratteri: Parcheggiate qui. Poi seguite le luci verdi.
«Proprio come alla stazione della metropolitana di Times Square,» esclamò deliziata Margo. «Scommetto che tra questa gente ci sono dei nuovayorkesi.»
«Arrivati freschi freschi,» ammise Paul, squadrando con espressione diffidente la parete di roccia e terriccio, mentre parcheggiava accanto all'ultima automobile. «Non hanno avuto neppure il tempo di conoscere le frane della California.»
Margo balzò a terra, tenendo in braccio Miao. Paul la seguì porgendole il giacchettino.