Alcuni laghi color turchese che aveva scorto dal Baba Yaga erano profondi quanto erano ampi, e in essi abitavano balene dagli immensi occhi, e presumibilmente dai grandi cervelli, con braccia che parevano cavi, che terminavano in filamenti simili a dita. E accanto alle balene nuotavano altre creature marine, apparentemente intelligenti, dai volti mobili ed espressivi.
Don avrebbe voluto fermarsi a studiare tutte quelle creature, osservare le loro azioni nei dettagli, ma sempre il bisogno di vedere qualche altra forma di vita, ancor più misteriosa o prodigiosa, si impadroniva di lui e lo spingeva, così che le sue paure furono brevi come quelle avventure lungo i corridoi vuoti. In nessun caso le creature che egli osservava parvero rendersi conto della sua presenza.
Nessuna forma di vita pareva mantenere un isolamento razziale; aveva visto alcuni felini impegnati in conversazioni apparentemente amichevoli con le più piccole arpie, nel loro mondo-uccelliera, e c'era stato uno dei giganteschi ragni che aveva nuotato, usando come remi le lunghe zampe, e con indosso una sorta di tuta trasparente, nei profondi laghi delle balene.
Cominciò a sembrargli incredibile che la varietà e il numero degli esseri che stava osservando potessero essere ospitati da un pianeta delle dimensioni della Terra, ma poi si rese conto che, con tutti i suoi ponti, il Vagabondo aveva una superficie abitabile quindicimila volte superiore, almeno, a quella della Terra.
Malgrado il numero e la varietà, quasi tutti gli esseri che poté osservare così brevemente parevano occupatissimi, pressati da chissà quale urgenza. Anche le creature immobili gli parvero immerse nel lavoro… meditazioni d'importanza vitale. C'era un onnipresente senso di crisi.
Di quando in quando, come per un errore del disegno di volo, o forse per riposo, Don si fermava in una sala priva di occupanti: grandi serbatoi che si riempivano di roccia lunare; immensi corridoi di macchine silenziose e scintillanti di luci arcane, con grandi tubi e cavi nei quali scorrevano fluidi di molti colori; grandi serre di strana vegetazione, illuminate da lampade più luminose del sole… solo che quelle potevano essere delle piante intelligenti; caverne artificiali colme di strutture geometriche compatte, che parevano sull'orlo della vita, come quelle che si trovavano sulla superficie del Vagabondo; sale sferiche colme di materia solare pura, fiammeggiante, violenta, benché essa non lo bruciasse né lo accecasse.
A volte egli vide del lavoro fisico svolto da creature di protoplasma, apparentemente artificiali, simili a gigantesche amebe, le cui colonne prensili e i cui organi sensoriali variavano a seconda del lavoro che veniva svolto. Altrove, si vedevano al lavoro dei robot di metallo, che avevano la forma di ragni, di esseri a ruota, e di molte altre forme di vita… benché alcuni robot sembrassero realmente vivi, come lo parevano certe enormi strutture simili a giganteschi cervelli elettronici. Le loro pareti trasparenti mostravano scure masse gelatinose che scintillavano di filamenti sottilissimi d'argento, più sottili che dei capelli, come se avessero potuto farsi crescere nervi e cellule cerebrali a seconda del bisogno.
Più grande era la varietà di forme di vita intelligenti che Don vedeva, più egli diventava sensibile alla loro presenza. Ora, quando egli si fermò nuovamente nel globo centrale spruzzato di stelle, esso parve un brulicare di deboli, soffusi esseri di nebbia violetta, dalle forme continuamente mutevoli, e dalle molte braccia: gelide creature delle tenebre al di là delle stelle. E una volta, quando salì brevemente nel ponte più alto, egli scorse una delle grandi forme astratte colorate aprirsi come un uovo, e riversare sulla pianura un'orda di creature.
Eppure, più egli diventava sensitivo alla presenza di vita intelligente, più era scosso dalla convinzione che esistessero intorno a lui forme invisibili di vita, che i suoi sensi non potevano vedere… come se il Vagabondo avesse molti più fantasmi, a bordo, di tutti i membri del suo equipaggio.
Indugiò in un'immensa sala immersa nell'immobilità e nel silenzio, una sala profonda fatta di molte balconate, e quasi da un'infinità di cassette dai piccoli sportelli, come la sala di classificazione e registro di un'immensa biblioteca. C'erano dei filamenti che portavano dalle cassette a strumenti di visione, che davano l'idea di grandi microscopi, e a Don parve di scorgere movimento lungo quelle molteplici trame di tele di ragno, ed ebbe l'idea che in quel luogo microbi e virus servili stessero radunando, e ordinando per un'ispezione, delle molecole sulle quali era impressa la conoscenza totale delle razze e delle storie dei mondi. Tutto il pensiero e la cultura della Terra, si disse, sarebbe facilmente entrato in uno di quei piccoli sportelli, non avrebbe certo riempito interamente una delle cassette. Era come se in quel luogo lui sfiorasse la visione universale, onnisciente dell'eternità che a volte veniva chiamata Dio.
Da quella sala egli passò come un lampo immateriale in un'altra, molto più viva e colma di movimento, gremita di pannelli di comando, di mappe, di carte, di schermi e di cubi per la visione tridimensionale. Uno di questi cubi mostrava scene continuamente mutevoli di catastrofi: paesaggi e città dilaniati dal terremoto, percorsi dal fuoco, inondati da immense ondate e da un sollevarsi silenzioso delle acque. Guardò per qualche tempo, colmo di eccitazione, poi si rese conto, inorridito, che quello era il suo pianeta, la Terra, che subiva orrende mutilazioni, nella stretta della massa del Vagabondo… il Vagabondo, che poteva creare e annullare la gravità, a seconda dei desideri dei suoi occupanti.
Avrebbe voluto rimanere là, a guardare, o almeno gli parve logico, ma invece egli venne spinto irresistibilmente a proseguire, attraverso numerose pareti, fino a raggiungere un salone che era un grande osservatorio nero, per i molti volti alieni che lo circondavano, alcuni con due occhi, altri con tre, e altri ancora con otto. Nell'osservatorio erano sospesi dei modelli della Terra e del Vagabondo e una specie di anello gonfio, che era ciò che restava della Luna. Qua e là, soprattutto riuniti a grappoli, vicini ai due pianeti, c'erano dei punti di luce gialla e violetta che Don immaginò fossero astronavi.
I globi più grandi erano separati dalla distanza esatta… circa trenta diametri… e Don non riuscì a stabilire se quelle fossero copie, o proiezioni tridimensionali. L'illusione era così perfetta, da dargli l'impressione di galleggiare nello spazio, con gli spettrali volti alieni che sostituivano il gioco delle costellazioni.
Poi, senza preavviso, altri pianeti, verdi, grigi, dorati, alcuni dalla concezione strana come il Vagabondo, cominciarono ad apparire a uno o due per volta. Abbacinanti serpentine di luce che viaggiavano con una bizzarra lentezza percorsero lo spazio tra essi… radiazioni che si muovevano a una velocità di 299.000 chilometri al secondo, ma rallentavano secondo una precisa scala di quel modello. Ci furono delle minuscole esplosioni. Astronavi simili a punticini di luce si mossero, in flotte d'incrociatori da guerra. Poi tutti i pianeti, all'infuori della Terra, cominciarono a muoversi lentamente, come se manovrassero per prepararsi a una battaglia.
Ma egli non vide mai l'esito di quella battaglia, perché le forze che lo spingevano attraverso il Vagabondo cominciarono a operare su di lui con grande urgenza, come se lui fosse ormai vicino alla fine del viaggio. Per la prima volta, provò un palpito di stanchezza.
Le tre sale successive attraverso le quali venne spinto erano tutte cubi di osservazione, con sfondi di nero velluto, a eccezione dei volti alieni degli osservatori. La prima mostrava una lente piatta, che ruotava lentamente, una lente fatta di punti vividi e di grappoli di luce… una galassia, certamente, probabilmente la Via Lattea.