La seconda sala aveva un grande sciame di macchie piccole, morbide, sferiche e a forma di disco, macchioline di luce distanziate assai più dei loro diametri. C'era qualcosa di strano, nello spazio di quell'osservatorio… pareva incurvarsi su se stesso, racchiudersi in una curva inesplicabile, misteriosamente, così che, mano a mano che lui si muoveva tutto intorno a lui cambiava più di quanto non avesse dovuto. Un attimo prima di venire portato fuori di là, Don sospettò che in quel modo gli fosse stato mostrato l'intero cosmo degli universi-isole: la totalità, l'universo.
La sua immaginazione cominciò a vagabondare sonnolenta, indipendentemente da quanto lui vedeva. Molte frasi galleggiarono come filamenti di fumo, attraverso gli spazi abbagliati della sua mente: Questo pianeta artificiale… l'ombelico del cosmo… il cervello centrale… l'occhio eterno… il libro del passato… trascendente come Dio, ma non ancora Dio.
Ritornò in sé, o alla sua visione volante, trasalendo, rendendosi conto che egli stava guardando in un immenso osservatorio nero, nel quale aveva appena visto il cosmo… era riconoscibile dalla forma misteriosamente distorta… ma ora quel cosmo era soltanto una macchiolina minuscola e pallida di luce che galleggiava solitaria. Poi macchioline luminose ancor più spettrali, di altre forme e colori, cominciarono ad apparire e a svanire, alcune rapide come il lampeggiare di una lucciola, altre indugiando per un poco. Don si chiese, quasi sognando, se quelli fossero degli altri universi, noti alle creature del Vagabondo. O forse soltanto universi ipotizzati… cercati… c'era qualcosa d'ipotetico, nel loro chiarore spettrale, e nel loro rapido svanire… e stelle e galassie e universi sono realmente oggetti così irreali, non più dei fievoli punti di luce che nuotavano davanti agli occhi di un uomo che sta per addormentarsi…
Poi il cosmo luminoso cominciò a tuffarsi e a sfrecciare intorno, come una foglia presa da un turbine di vento, ed egli si domandò, confusamente, per quale motivo ciò accadesse, poiché, certo, l'universo doveva avere basi solide… e poi anche i cosmi spettrali cominciarono a ruotare e turbinare, ipoteticamente…
L'ultima sala che Don attraversò lo riscosse brevemente da quel torpore sonnolento, come nessun'altra visione avrebbe potuto fare, e in essa gli parve d'intuire una morale, benché la sua mente stanca fosse incapace di tradurla in parole. Si trattava di una caverna immensa, grande come il pianeta, simile a quella delle arpie, con un cielo rosso come una fornace che si arcuava sopra una savana punteggiata da rocce e macchie d'alberi. Piccoli animali più snelli e aggraziati dei daini, e armati con un solitario corno sottile, pascolavano, muovendosi su piccoli zoccoli. Uccelli, con piume di rubino e di topazio e di smeraldo, e con grandi code ed elaborati pennacchi e ruote di pavone volavano bassi, posandosi frequentemente sull'erba alta e tra gli alberi, come se cercassero semi e frutta.
D'un tratto, tre uccelli presero il volo dall'erba, e il più vicino gruppo di unicorni s'immobilizzò, fiutando l'aria e muovendo le piccole teste qua e là, per poi correre via a grandi balzi. Simultaneamente, da dietro una roccia, un felinide fulvo, dalla pelliccia striata di grigio, assai simile all'accompagnatore di Don spiccò un grande balzo. Questi inseguì gli unicorni, con le lunghe zampe che si muovevano velocissime, poi si gettò sull'ultimo del gruppo, lo fece cadere a terra, lo afferrò per il petto e i fianchi, e affondò le fauci verso la gola palpitante.
Un uccello color topazio svolazzò vicino alla più vicina macchia d'alberi, e di là spiccò un balzo un felinide dalla pelliccia verde, una femmina, a giudicare dalle dimensioni minori e dai contorni lievemente diversi. La belva balzò, con infinita grazia e la quasi incredibile elevazione di una ballerina classica che eseguisse una grand jeté. Le sue lunghe braccia si mossero veloci, e sfiorarono appena l'uccello, ma tre lunghi artigli affondarono nel petto. Tenendolo per la cresta, con l'altra mano, la felina se lo portò alle labbra, e morse.
C'era un rosseggiare cupo, sulle labbra olivastre, e sul canino aguzzo che apparve, quando essa guardò, al di sopra delle piume gialle, direttamente nella direzione di Don, con i suoi grandi occhi simili a fiori, dalle iridi di giada. Poteva trattarsi di una coincidenza, ma Don ebbe l'irragionevole certezza di essere visto. E mentre la felina succhiava il sangue della creatura, con il cielo sanguigno alle sue spalle, gli sorrise.
A questo punto un'infinita stanchezza piombò su di lui, e tutto si fece confuso e nebuloso, e Don capì di volare di nuovo nella sua piccola cabina. Cercò di guardare in basso, dove c'era il letto, ma anche questa volta non ne fu capace. Un istante dopo si ritrovò sdraiato sul letto. Sentì il contatto carezzevole dai piedi alla nuca, e ogni immagine svanì, e il senso di movimento vorticoso si quietò, scomponendosi nelle tenebre del riposo.
CAPITOLO XXXIV
Doc suonò il clacson quattro volte, e fermò la Corvette a pochi passi dal pendio roccioso sul quale si erano accampati la notte prima. Hixon era dietro, al volante del camion. A bordo della Corvette, Ann era tra Doc e Rama Joan, mentre Margo e Hunter erano seduti dietro.
Tutti e cinque erano di eccellente umore, e chiacchieravano allegramente, malgrado — o, probabilmente, proprio per questo — i loro volti fossero sporchi e anneriti, e gli abiti fossero sporchi e fradici per l'incredibile pioggia nera e calda che aveva cessato di battere proprio in quel momento, e che doveva essere stata impregnata della cenere vulcanica proveniente dal Messico e da altre regioni del sud.
«O fanghiglia marina scoperta dalla bassa marea, e risucchiata dal vento,» ipotizzò Doc, a questo punto. «Il sapore è salmastro.»
Il cielo era gravido di enormi nubi scure, che qua e là lasciavano filtrare una luce argentea.
«Tutti fuori,» ordinò allegramente Doc. «Ross, tu vai avanti, e controlla se c'è acqua nella buca. Voglio passare senza aspettare troppo.»
Hunter ubbidì. Margo andò con lui.
Il camion si fermò dietro la Corvette, e dietro il camion si fermò l'autobus scolastico, con la vernice gialla più annerita che mai.
Doc gridò, rivolgendosi a Hixon:
«Di' ai tuoi passeggeri di scendere, prima che facciamo passare i veicoli, come questa mattina. McHeath!… passa parola a Doddsy, e digli di far scendere dall'autobus tutti i suoi protetti. Non vogliamo perdere tempo, qui, più di quanto sia necessario. Poi mettiti di guardia accanto all'autobus, e sorveglia la strada dietro di noi.»
Ann si avvicinò a Doc. Disse, in tono eccitato:
«Posso restare in macchina con te? Non ho paura di scivolare, sai.»
«Sarebbe fantastico, tesoro, ma la tua mamma direbbe che io tento Kali,» disse Doc, abbassando il capo, e accostando alla guancia della bambina la sua guancia sporca. Rama Joan gli sorrise affettuosamente, e prese per mano sua figlia, ridendo.
«Non c'è acqua nella buca,» chiamò Hunter. In quel momento, scivolò e si ritrovò a sedere. «Ma è maledettamente viscido,» specificò, rialzandosi in piedi, mentre Margo gli sorrideva impietosamente. «Questa specie di pellicola di cenere bagnata è pericolosa.»
Il sorriso di Rama Joan sparì. Lei mormorò ansiosamente a Doc:
«Non possiamo riempire la buca di sassi e di terriccio, o per lo meno ripulirla?»
Doc si avvicinò ancor di più a lei, e rispose in tono basso e rapido:
«Ascolta, tesoro, quel branco di ragazzini ubriachi e assassini ci seguirà. Prenderanno delle automobili e verranno da questa parte, per raggiungere la spiaggia. Alcuni lo fanno da quando sono nati. È una seconda natura per loro. Non abbiamo veramente un minuto da perdere.»
Sedette al volante, suonò il clacson, una volta, e accese il motore.