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Durante le ultime trentasei ore, Richard era stato testimone di numerosi salvataggi, e riunioni, e di molte prove di amicizia e soccorso, e ora si rese conto che desiderava a sua volta di soccorrere e consolare qualcuno. Ebbe un acuto timore, al pensiero che qualcuno udisse i singhiozzi sommessi di quella ragazza, o li raggiungesse prima che quel pianto fosse stato quietato, e almeno i primi gesti di amicizia fossero stati fatti.

Avvicinandosi a lei, pensò al freddo che stava calando, e ricordò quanto erano sembrate calde le coppie sotto la paglia, la notte prima, e pensò inoltre che questa era la fine del mondo, o per lo meno un'eccellente imitazione; eppure, nello stesso tempo, gli parve che quei pensieri non descrivessero completamente i motivi che lo spingevano.

Le offrì del pane fresco, che aveva recuperato dai sacchetti di provviste lanciate da un elicottero, ma poi scoprì che il motivo di maggiore angoscia, per Vera, era il fatto di essere assetata. Procurarsi dell'acqua, nelle regioni sommerse dalla nuova marea, non era un'impresa semplice, con tutti i serbatoi, i pozzi e le sorgenti sommersi dall'acqua salata. C'erano dei tubi che contenevano acqua potabile, ma si trattava di un lavoro di ricerca che si affidava molto alla fortuna.

Ricordò di aver visto saccheggiare un pub, a pochi isolati di distanza, e quando essi si avviarono in quella direzione, passando per le strade i cui muri portavano il segno bruno della marea, scoprì un'altra causa del dolore della ragazza: aveva perso un tacco, e in ogni caso le sue scarpine strette, a punta, con i tacchi alti, non erano l'ideale per camminare.

C'era una fila ordinata di saccheggiatori, davanti al pub. Oh, noi britannici ossequiosi delle leggi, pensò Richard. Ci mettiamo in fila perfino per saccheggiare. Ricordò di aver visto un negozio di scarpe a poca distanza, e vi penetrò con determinazione… una cosa piuttosto facile, perché la marea l'aveva fatto prima di lui… e riuscì a trovare tra le scansie umide e sbilenche un paio di scarpe da tennis per Vera, e delle calze pesanti per entrambi. Tutti gli articoli erano fradici, naturalmente, ma questo non era grave.

Quando tornarono indietro, la fila era diminuita, e presto lui e Vera ricevettero una bottiglia di birra a testa e una fiaschetta di rum, sotto lo sgurado vigile e fiammeggiante di un uomo che avrebbe potuto essere il vero proprietario, ma non lo disse.

Fuori, un grassone stava puntando il braccio verso il fondo della strada, e diceva:

«Ah, ecco qui il bastardo!»

Era il Vagabondo, che sorgeva mostrando la faccia con la X panciuta, e con un anello quasi simmetrico dei frammenti biancheggianti della Luna.

Vera guardò il globo sanguigno per qualche istante, poi strinse le labbra e distolse lo sguardo. Richard sentì un'ondata di approvazione dentro di sé, per quella reazione. La ragazza aveva il gomito vicino a lui, che sporgeva solo un poco più del normale in una persona che camminava. Richard strinse il braccio della ragazza, con fermezza, e la scortò lungo la strada, riprendendo la direzione che aveva seguito prima d'incontrarla, muovendosi con passo sicuro ma tranquillo, all'inizio, mentre entrambi bevevano la birra e mangiavano un po' di pane. Non le disse nulla del suo piano per raggiungere le Malvern Hills. Ci sarebbe stato tempo a sufficienza per parlarne, quando avrebbero attraversato la ruggente Severn dal vecchio ponte di ferro di Telford… se non era crollato.

Vera accese la radiolina, e ascoltarono su tutte le lunghezze un rumore che somigliava a quello di olio che friggeva. Richard avrebbe voluto dirle di gettar via l'apparecchio, ma invece le domandò come le andavano le scarpe nuove, e lei, sorridendogli, rispose, «Sono paradisiache.»

Solo un'ora prima Richard aveva camminato, solitario al centro di una folla, pensando a tutti i milioni, o decine di milioni, di morti recenti che dovevano giacere in tutto il mondo, e chiedendosi se questo avesse davvero qualche importanza.

Aveva pensato: Il inondo ha davvero bisogno di tanta gente? Prendiamo la folla che ora mi circonda… decimata dalle inondazioni, eppure in maggioranza composta ancora degli stupidi stereotipi dei quali il mondo potrebbe far benissimo a meno. Quante persone sono necessarie, per sostenere una cultura ragionevolmente ricca? Un numero superiore al necessario non è, in realtà uno spreco? E milioni di stereotipi non sono un prezzo troppo alto da pagare, per qualche rara eccezione? Non c'è qualcosa di totalmente volgare nel concetto di un genere umano che si moltiplica all'infinito, senza alcun piano preciso, di un'umanità che forse, avendo coperto tutta la Terra, un giorno si propagherà come un branco di topi fin sulle stelle? Avere tante persone è realmente importante, se non per le persone? Il mondo ha bisogno di questa decimazione, e la merita!

Ma ora lui pensava che se anche un'altra persona soltanto fosse stata presa, quella persona avrebbe potuto essere Vera. In teoria esistevano decine di migliaia di Vere, supponeva, ma soltanto una ne esisteva dove questo Richard Hillary avrebbe potuto trovarla. Le strinse il braccio, con forza rinnovata.

CAPITOLO XXXVI

Paul Hagbolt guardava nell'abisso tenebroso senza fondo, come se la finestra circolare sulla quale si trovava fosse stata la sommità di un immenso acquario, le stelle e i sottili semicerchi della Terra e del Vagabondo una misteriosa luminescenza marina, o come se la rotondità fosse stata quella di un vetrino sotto un microscopio, e le stelle, microorganismi da studiare.

Si udì un fruscio leggero, e poi un miagolio sommesso… Miao, che aveva attraversato l'aiuola fiorita, e aveva annunciato qualche sua scoperta a Tigerishka.

Accanto a Paul, la gatta più grande disse:

«Poiché il genere umano è giovane, tu credi che anche l'universo lo sia. Ma invece è vecchio, vecchio, vecchio. Domani e domani… lentamente… l'ultima sillaba del tempo… favola narrata da un idiota… Sì!

«Tu credi che lo spazio sia vuoto, e invece è pieno. Il tuo sistema solare è uno dei pochi luoghi primitivi che rimangono, come un pezzo di terra piccolo, coperto da erbacce, circondato da grandi edifici nel cuore di una vasta e antica città che è cresciuta cancellando tutta la campagna.

«Nella galassia dove il Vagabondo è stato costruito nella sua orbita, i pianeti sono così fitti, intorno a ogni sole, che nascondono la sua luce e formano una metropoli dello spazio, una città soffocante e brulicante di palazzi grande come una galassia. È il vanto dei nostri ingegneri, 'Dovunque sfugga un raggio di sole, noi mettiamo un pianeta'. O costruiscono un campo, per sfruttare la luce solare.

«Decine di migliaia di pianeti intorno a ogni sole, che si perturbano con decine di migliaia di maree, così che l'armonizzazione delle maree è una buona metà della nostra ingegneria civile. Pianeti che si susseguono così ravvicinati, nella stessa orbita, da formare collane ellittiche, e ogni perla è un mondo. Conosci quegli oggetti filigranati che i tuoi cinesi intagliano nell'avorio, sfere entro altre sfere, in modo che tu guardi e guardi per trovare il centro, e concludi con la sensazione che là dentro sia prigioniero un po' dell'infinito? Questo c'è nei tuoi ricordi. È questo l'aspetto dei nostri sistemi solari, quasi ovunque.

«Voi della Terra non avete ancora udito questa notizia, semplicemente a causa dell'estenuante lentezza con la quale viaggia la luce. Se poteste aspettare un miliardo di anni, vedreste le galassie impallidire, non per la morte delle stelle, ma perché la loro luce è mascherata dal misero assieparsi dei padroni delle stelle.

«Quasi tutti questi pianeti che nascondono le stelle, a parte pochissimi antichi resti, sono artificiali. Miliardi di trilioni di soli morti e di lune fredde e di giganteschi pianeti gassosi sono stati scavati e scavati dai minatori delle stelle, per procurarsi la materia necessaria a crearli… le vostre piramidi egizie, moltiplicate all'infinito. Per tutto l'universo, i pianeti naturali sono rari come i pensieri giovani.