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La risposta di Tigerishka lo sorprese. Lei disse, in fretta:

«Hai ragione. Devo fare immediatamente rapporto al Vagabondo. Potrebbe trattarsi di… quello di cui abbiamo paura.» Si voltò bruscamente verso il pannello di comando. Era in piedi, ora, eretta sulle zampe posteriori, nella stessa gravità che premeva il corpo di Paul. «Tu, saluta il nostro ospite!»

Un portello si aprì al centro del pavimento rosa e, con le spalle voltate a Paul, un uomo che indossava l'uniforme dell'Astronautica degli Stati Uniti fece il suo ingresso. Appoggiò i gomiti sul bordo del portello, affrontò la gravità, ma evidentemente questa non lo sorprese particolarmente, perché egli issò subito il resto del suo corpo all'interno del disco volante.

Paul, che aveva appena indossato la camicia, si alzò di scatto, e riuscì a cogliere una fuggevole visione dell'interno di un largo tubo metallico, mentre il portello si chiudeva.

Il nuovo venuto, dopo avere fissato Tigerishka, si guardò intorno.

«Don!»

«Paul!»

«Credevo che tu fossi perduto sulla Luna. Come…»

«E io credevo che tu fossi… non so cosa. Ma come…»

Tacquero entrambi, impacciati, aspettando che l'altro incominciasse a parlare. Poi Paul si accorse che Don lo stava squadrando con evidente curiosità. Si affrettò a chiudere la cerniera lampo dei pantaloni, e ad abbottonare la camicia.

Don guardò Tigerishka, la guardò per diversi secondi. Poi guardò i fiori e il resto dell'arredamento. Infine il suo sguardo tornò a posarsi su Paul, ed egli spalancò le braccia, con aria sconfitta, e sorrise, con l'aria di chi vuole dire, «Non m'importa che il sistema solare stia andando a pezzi, né che noi ci troviamo in un impossibile campo gravitazionale, in un impossibile disco volante, nel cuore dello spazio siderale… Ma tutto questo è buffo, come una farsa piccante!»

Paul si accorse di arrossire. Provò una collera violenta contro se stesso.

Tigerishka si voltò a guardarli, dal pannello di comando, per il tempo sufficiente a dire:

«Benvenuto, Donald Barnard Merriam! Ti prego di scusare la scimmia, si vergogna della sua nudità. Ma suppongo che anche tu ti vergogni. Veramente, dovreste provare entrambi il pelo!»

CAPITOLO XL

Per gli studiosi dei dischi volanti era un quarto dopo il dinosauro, come avrebbe detto Ann, se non fosse stata addormentata. In quel momento il Vagabondo era più alto, nel cielo, di un'ora e quindici minuti rispetto a quando la Corvette e il camion si erano affiancati sulla sella rocciosa, per osservare l'alta marea. Ora la cena era finita, i graffi e le ferite accumulati nello spostare i sassi e il pietrisco erano stati puliti e fasciati, e più di metà degli studiosi dei dischi volanti erano addormentati, a bordo dei due veicoli e intorno a essi, avvolti, malgrado la relativa mitezza della notte, in soprabiti, coperte, e nei bordi del grande telo.

Tre figure si scaldavano ancora intorno alla stufetta da campo sulla quale avevano bollito l'acqua per il caffè: Pop, sbilenco come un insetto, intento ad accarezzarsi i pochi cattivi denti rimasti nella voragine della bocca, con la solennità e l'acidità che avrebbe avuto se il Buon Dio fosse stato un dentista, e Pop si preparasse a citarlo in giudizio per cattiva pratica professionale; Bacchetto, seduto a gambe incrociate nella più semplice variante della posizione di loto… caviglia destra sopra il ginocchio sinistro, ginocchio destro sopra la caviglia sinistra… e intento a fissare il dinosauro che ruotava verso l'oriente del Vagabondo, come se quell'animale dorato, che ora aveva assunto un aspetto piuttosto fallico, fosse stato l'ombelico del cosmo; e l'Omino, seduto a terra e intento a trascrivere gli eventi e le osservazioni della giornata sul suo libretto d'appunti, nella luce del Vagabondo.

Hunter, mano nella mano di Margo, e con la ragazza che camminava al suo fianco, si avvicinò all'Omino e lo toccò sulla spalla dicendo, sommessamente:

«Doddsy, la signorina Gelhorn e io andiamo sulla cresta, dall'altra parte della strada. Se c'è qualche emergenza seria: cinque colpi di clacson.»

L'Omino sollevò lo sguardo, e annuì.

Dietro la stufetta, Pop lanciò uno sguardo alla coperta che Margo portava sul braccio, e poi distolse lo sguardo, e fece un piccolo, sgradevole suono sprezzante, per metà cinico, per metà di rabbiosa disapprovazione.

Bacchetto si ritirò dalla sua contemplazione, per guardare Pop. «Fa' silenzio,» disse, piano e con calma. Poi guardò Hunter e Margo, e il Vagabondo, che era sopra di loro, e un sorriso apparve sul suo viso fanatico e astratto, e tracciando con l'indice destro il segno di Iside sul ginocchio destro, disse: «Ispan fa piovere benedizioni sul vostro amore.»

L'Omino chinò il capo sul suo libretto d'appunti. Aveva le labbra serrate, come se avesse voluto nascondere un sorriso, o perfino soffocare una risatina.

Hunter e Margo attraversarono la strada. Ann e sua madre erano distese, avvolte in una coperta, sul margine dell'ombra del camion, e a Hunter parve che Rama Joan stesse loro sorridendo, con gli occhi aperti, ma quando si avvicinò vide che gli occhi della donna erano chiusi. In quel preciso istante si accorse, con la coda dell'occhio, della presenza di un'alta figura nera che era in piedi nell'ombra del camion, verso il fondo. Anche il suo viso era nero, oscurato da un cappellaccio nero con la falda rivolta all'ingiù.

Un brivido percorse la schiena di Hunter, perché ebbe la certezza che l'apparizione fosse Doc. Avrebbe voluto che Doc parlasse, e mostrasse il viso, ma la figura si limitò a sollevare le mani verso il cappellaccio, e a calcarlo ancor più sul viso, per poi ritirarsi nell'ombra.

In quell'istante Hunter sentì che le dita di Margo s'irrigidivano nelle sue, ed egli guardò direttamente nell'ombra del camion. Là non c'era più nessuna figura.

Continuarono a camminare, senza dire nulla di quanto avevano visto. L'erba scricchiolava debolmente sotto i loro piedi, mentre essi salivano il pendio, nel grigio giorno di mezzanotte del Vagabondo. Erano acutamente consapevoli della presenza del mare invasore sulle colline… l'alta marea in attesa, a cinquanta metri da loro, con onde che lambivano l'altura… e del Vagabondo invasore del cielo, o meglio, invasore dello spazio della Terra, e portatore del suo spazio scuro e perlaceo, e del mistero e della presenza che invadevano la vita di tutto il genere umano, di tutta la Terra.

Salirono su un basso costone roccioso, e di là salirono su un altro, e allora, davanti a loro, apparve una roccia grigia e rettangolare, piatta e liscia, che pareva la bara di un gigante. Margo distese la coperta su quella roccia, ed essi s'inginocchiarono sulla coperta, uno di fronte all'altra. Si fissarono intensamente, senza sorridere, o se le loro labbra sorridevano, si trattava di un sorriso crudele, divoratore. I silenzi tra i palpiti della marea e lo sciabordio della risacca erano colmati dal pulsare ritmico del loro sangue, più forte del ritmico sospiro-schianto dello stesso mare. Le colline parevano riecheggiare questo pulsare del sangue, e quasi muoversi con loro, e il cielo pareva risonarne. Margo aprì la cerniera lampo della giacca, la posò a terra, vi posò accanto la pistola a momentum, portò le mani alla gola, e cominciò a sbottonarsi la blusa, ma Hunter le tolse questo compito, e lei fece scorrere le dita della mano destra nella barba dell'uomo, e la chiuse nel pugno, imprigionando i peli duri e sporchi, e infilò le nocche delle dita nel mento cespuglioso. Poi il tempo parve arrestarsi, o meglio, parve perdere la sua urgenza direzionale del movimento; diventò un luogo all'aperto dove si stava in piedi, piuttosto che un basso, stretto corridoio nel quale si era spinti frettolosamente. Il mare e le rocce e le colline e il cielo e la fredda aria che li racchiudeva, e il grande, splendido pianeta sospeso nel cielo, tutte queste cose a modo loro acquistarono vita, divennero mobili della stanza che è la mente, o… più esattamente… la mente protese dita invisibili per abbracciarle. Più Margo e Hunter erano consapevoli l'una del corpo dell'altro e del proprio corpo, più, e non meno, era l'intensità con la quale diventavano consapevoli di tutto ciò che li circondava, l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo, le grandi e le piccole cose, perfino la piccola colonnina violetta, lunga pochi decimi di millimetro, sulla scala graduata dell'impugnatura della pistola a momentum… ed erano consapevoli delle cose invisibili, come delle cose visibili, dei morti, come dei vivi. I loro corpi e i cieli erano una cosa sola, il sole inghiottito corteggiava la nera rotondità lunare del pianeta, e finalmente veniva accettato da essa. La risacca viva, punitrice era in loro, e il mare con tutta la sua grandezza e la tempesta e la certezza della bonaccia. Il tempo si stendeva, passando con un filamento invisibile di movimento, per una volta non bisbigliava una sentenza di morte, ma fondeva armoniosamente la morte con la vita. In alto, la bestia dorata e affilata andava a oriente ruotando, attraverso la fosca porpora, e nel suo andare diventò il dorso del serpente dorato attorto intorno all'uovo dischiuso, nella faccia che per un'ora avrebbe assunto il Vagabondo… il serpente femmina che lottava, e soffocava, e infine distruggeva il maschio portatore del seme… mentre intorno al grande pianeta intruso i frammenti della luna luccicavano e scintillavano e danzavano, come i milioni di spermatozoi danzavano supplicanti, insinuanti, orgogliosi, imperiosi, intorno all'ovulo.