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Shannon si meravigliava delle energie di Reed, pur provando nello stesso tempo qualcosa di simile al disgusto per il modo in cui le impiegava. Reed sfruttava tutti e tutto con affascinante cinismo, nell’interesse supremo della scienza, e l’osservarlo al lavoro aveva gradualmente prosciugato qualunque rispetto e buona volontà Shannon avesse portato con sé al progetto. Sapeva che la reazione di sua madre nei confronti di Reed non era molto dissimile dalla sua, anche se lei non gli aveva mai confidato niente in proposito; lo sorprendeva comunque il fatto che potesse esserci ancora qualcosa su cui andavano d’accordo.

— Dottor Reed…

— Mi scusi, dottor Reed, ma…

Ora sua madre aveva affiancato Reed e stavano percorrendo insieme la stanza; sua madre aveva le labbra strette e un’espressione rassegnata, e teneva il camice da laboratorio abbottonato fino in cima come nel tentativo di evitare ogni contaminazione. Reed, come al solito, sembrava uscito dalla rivista «Manstyle». Shannon abbassò gli occhi su quella specie di caffettano grigio che l’avvolgeva, dal quale spuntavano le estremità inferiori dei jeans.

— … Noi veramente vorremmo…

— Il senatore Foyle desidera che lei lo richiami…

— … Sì, va bene; e dica a Dinocci che può procedere a far esaminare un altro campione dalla sonda. Sì, Max, arriveremo anche a questo… — Reed invitò con un gesto al silenzio, quando Shannon e Garda si voltarono verso di lui, sui loro seggiolini. — Bene, ho appena sentito la notizia dell’ultimo sanguinario impegno sottoscritto dalla nostra «Robin Hood».

Shannon sogghignò in silenzio. Lui era stato il primo che aveva soprannominato T’uupieh «Robin Hood» per scherzo.

Reed l’aveva colto al volo e aveva chiamato le sue paludi di ammoniaca «Foresta di Sherwood» a beneficio della stampa. Ma quando la sanguinaria attività di lei, e la conseguente lunga lista di cadaveri, si erano risapute, ella era apparsa piuttosto una stretta collaboratrice dello Sceriffo di Nottingham, e alcuni cronisti avevano aggiunto che T’uupieh non assomigliava a Robin Hood più di quanto Rima assomigliasse a un uccello. Reed aveva replicato, ridendo: — Be’, dopotutto l’unica ragione per cui Robin Hood rubava ai ricchi era perché i poveri non avevano i soldi! — Questa frase, pensò Shannon, aveva segnato il vero inizio della sua profonda antipatia.

— … Questo potrebbe darci l’occasione di mostrare al mondo, visivamente, le aspre realtà della vita su Titano…

— Ein moment — s’intromise Garda. — Ci stai dicendo che tu vuoi che il pubblico assista a queste atrocità, Marcus? — Fino a quel giorno, non avevano mai diffuso i nastri con le registrazioni di scene di assassinio; perfino Reed non era riuscito a escogitare nessuna giustificazione scientifica a una simile esibizione.

— No, non lo farà, Garda. — Shannon drizzò occhi e orecchi nell’udire sua madre pronunciare queste parole. — Eravamo tutti d’accordo, infatti, che non avremmo rilasciato nessun nastro a scopo puramente sensazionalistico.

— Carly, sai fin troppo bene che la stampa mi è sempre stata addosso perché rilasciassi quei nastri, e non l’ho mai fatto perché tutti abbiamo votato contro. Ma sento che questa situazione è diversa: la dimostrazione di una condizione socioculturale aliena… un documento unico, eccezionale. Che cosa ne pensi, Shann?

Shannon scrollò le spalle, senza preoccuparsi di nascondere la sua irritazione. — Non so che cosa ci sia di così maledettamente unico: un film di ammazzamenti è un film di ammazzamenti, dovunque lo si giri. Mi pare che l’idea puzzi di stantio. — Una volta, mentre era all’università, aveva visto un film in cui la vittima, senza nulla sospettare, veniva aggredita e fatta a pezzi. Quel film, e ogni altro simile, così rappresentativi di ciò che era la razza umana, gli avevano sempre fatto venire il voltastomaco.

— Ach! C’è più verità che poesia in questo! — esclamò Garda. Reed si accigliò, e Shannon vide che sua madre faceva lo stesso.

— Ho un’idea migliore. — Shannon schiacciò il mozzicone di sigaretta nel portacenere sotto il quadro di comando. — Perché non lasci che cerchi di dissuaderla?

Nel preciso istante in cui lo disse si rese conto di ciò che voleva realmente tentare; e quanto il successo avrebbe significato per la sua fede nelle comunicazioni, per l’immagine che si era creato della gente di T’uupieh e forse di se stesso.

Tutti si mostrarono sorpresi. — E come? — domandò Reed.

— Be’… non lo so ancora. Lascia soltanto che le parli, che cerchi un’autentica comunicazione con lei, che scopra ciò che lei pensa e quello che prova, senza che tutta questa apparecchiatura tecnica interferisca, almeno per un po’.

Le labbra di sua madre compirono il prodigio di restringersi ancora un poco; egli vide le fin troppo familiari rughe della preoccupazione formarsi fra le sue sopracciglia. — Il nostro lavoro, qui, è di raccogliere qualunque «spazzatura» dallo spazio. Non cominciare a voler imporre i tuoi valori morali all’universo. Abbiamo anche troppo da fare con l’universo così com’è.

— Perché, è forse un’imposizione il tentativo di fermare un assassinio, anzi, un massacro? — Gli occhi solitamente sbiaditi di Garda lampeggiarono. — Ora, questo sì che ha delle vere implicazioni sociali. Pensaci, Marcus…

Reed annuì, dopo aver dato un’occhiata ai volti pazienti e attenti che lo circondavano. — Sì… infatti. Una massiccia dose d’interesse umano… — Mormorii e cenni del capo in risposta. — Va bene, Shann. Mancano circa tre giorni prima che il mattino sorga nuovamente sulla «Foresta di Sherwood». Puoi averli tutti per te, per lavorarti T’uupieh. La stampa vorrà continui rapporti dei tuoi progressi… — Egli guardò il suo orologio e annuì in direzione della porta, già mezzo voltato. Shannon evitò ostentatamente di guardare in viso sua madre, quando gli passò davanti.

— Buona fortuna, Shann — gli disse Reed con fare assente. — Non ci conterei molto, sulla possibilità di cambiar la testa a Robin Hood; ma puoi sempre provarci.

Shannon s’ingobbì sul seggiolino, aggrondato, e tornò a voltarsi verso il quadro di controllo. — Nella tua prossima incarnazione, possa tu ritornare sotto forma di water-closet.

T’uupieh era confusa. Ella sedeva su un’ingobbatura viscida di pietracqua, accanto al demone prigioniero, in attesa che le desse una risposta. Dall’istante in cui si era imbattuta in esso nella palude, più volte era rimasta stupita per la scarsissima rassomiglianza del suo comportamento con tutto ciò che la tradizione le aveva insegnato sui demoni. E stanotte…

Ella sussultò, sorpresa, quando il braccio grottesco e artigliato della sonda si animò all’improvviso, avanzando a tentoni fra i germogli scintillanti di ghiaccio argenteo che facevano capolino attraverso la poltiglia semifusa ai piedi della bassa collina. Il demone faceva molte cose incomprensibili (il che era appunto ciò che ci si poteva aspettare da un demone): esigeva offerte di carne, vegetazione, perfino di pietre… a volte addirittura parte del bottino che ella aveva sottratto agli incauti viaggiatori. Lei gli aveva offerto tutto questo con gioia, sperando di guadagnarsi il suo favore e il suo aiuto… sia pure col più vivo rincrescimento gli aveva concesso gli ornamenti di prezioso metallo degli «antichi» di cui aveva spogliato un piagnucolante signore straniero. Il demone l’aveva elogiata con particolare effusione per questo; tutti i demoni accumulavano metallo, le aveva detto, ed ella supponeva che esso fosse necessario a sostenere la loro forza: in particolare, il carapace a forma di cupola di questo demone, che in quel momento appunto riluceva del fuoco stregato che sempre lo avvolgeva, la notte, lo trasformava in un immenso gioiello metallico color del sangue. Eppure, lei aveva sempre sentito dire che i demoni preferivano la carne degli uomini e delle donne. Ma quando lei aveva cercato di cacciar dentro le fauci del demone l’ala del signore straniero, esso l’aveva sputata fuori, e le aveva imposto di lasciarlo andare. Sbalordita, aveva obbedito, lasciando che quello sciocco fuggisse urlando per perdersi in mezzo alla palude.