Mary era già in ritardo quando arrivò al reparto per i bambini di una stazione pubblica per l’ego-rotazione. All’esterno era in attesa un autobus scolastico, e prenotò un passaggio per la scuola a nome di Susan Shorrs. Poi trovò un gabinetto libero e lo aprì con il suo bracciale d’identità. Indossò uno dei costumi appositi e impacchettò il vestito e gli oggetti personali spedendoli a casa sua.
I ragazzini della sua età non mettevano il trucco, ma Mary aveva l’abitudine di guardarsi allo specchio fino all’ultimo istante del suo turno. Cercava sempre, con tutte le sue forze, di vedere quale fosse l’aspetto di Susan Shorrs. A lato dello specchio qualcuno aveva scribacchiato due versi che le strapparono una risatina:
… e poi ci fu l’ego-rotazione, con un brivido che mai l’aveva sconvolta tanto perché si rendeva conto di quel che stava per fare.
Se qualcuno era un iperego, come Mary, si dava per certo che avesse la cognizione dello scorrere del tempo anche quand’era fuori turno. Ovviamente non sapeva nulla di ciò che gli accadeva attorno, ma dentro di lui una sorta di orologio biologico continuava a ticchettare. L’errore di Mary fu dunque marchiano, perché quando forzò l’ego-rotazione e riprese possesso del corpo scoprì, sbigottita, di trovarsi a sedere in classe durante l’ora della signora Harris e non già nel campo giochi dove aveva previsto di sorprendere Susan.
Mary ebbe un fremito di terrore. E trovarsi addosso il vestitaccio scialbo che Susan indossava per andare a scuola accentuò la stranezza della situazione in cui s’era cacciata anticipando troppo la rotazione: una situazione grave quanto pericolosa. In genere si pensava che nei bambini la differenza fra l’ipoego e l’iperego fosse scarsa, ma quando rialzò lo sguardo il suo spavento crebbe. I ragazzi cambiavano. Le riuscì difficilissimo riconoscere qualcuno dei presenti, benché la maggior parte di loro fossero gli alter-ego dei suoi vecchi compagni di classe. La signora Harris era del turno B, che si sovrapponeva a quelli di Mary e di Susan, ma di tutti gli altri la ragazzina identificò con certezza soltanto l’ipoego di Carl Blair grazie alle sue lentiggini.
Mary era sicura che se non se ne fosse andata quanto prima la signora Harris l’avrebbe riconosciuta. Se avesse lasciato l’aula con la necessaria naturalezza la donna non avrebbe avuto sospetti. Comunque era inutile cercar d’immaginare il modo di camminare di Susan. Alzò due dita.
Con un cenno del capo l’insegnante le diede il permesso di andare al gabinetto, e la ragazzina uscì dal banco. Ma solo quando poté chiudere la porta dietro di sé smise di sentirsi lo sguardo della signora Harris ficcato nella schiena come un trapano. Non riuscì a rilassarsi molto: la paura le faceva vedere il mondo della sua ipoego come un mondo completamente diverso.
Fu una camminata lunga quella che portò Mary attraverso tutta la città fino all’indirizzo che si era segnato. Suonò il campanello, e quando la porta si aprì ebbe la sorpresa di vedersi aprire da Conrad Manz, già rientrato dal lavoro. Un’altra cosa la sorpresa: allorché l’uomo sorrise lei scoprì di amarlo all’istante.
— Ebbene, che cosa desideri, signorina? — chiese Conrad.
Mary non poté rispondere; riuscì soltanto a restituirgli il sorriso.
— Come ti chiami? Abiti da queste parti?
Sorridere era più difficile; Mary deglutì un groppo di saliva. D’un tratto l’uomo sbarrò gli occhi con stupore e arrossì.
— Ehi! Ehi! Via… sono certo che non c’è nessun bisogno di piangere, piccola. Coraggio, entra e vediamo un po’ cosa possiamo fare per aiutarti. Clara! Abbiamo visite: una signorinella un tantino… emozionata.
Mary lasciò che un braccio robusto di lui le circondasse le spalle e la conducesse, piangente, nell’elegante appartamento. Poi vide Clara venire verso di lei con aria premurosa che… no, quel sorriso dolce e premuroso non apparteneva affatto a sua madre: era diversa.
— Adesso sentiamo un po’, piccola. Va meglio? Cos’è che ti ha portata qui? — domandò Conrad appena lei ebbe smesso di piangere.
Mary dovette abbassare lo sguardo davanti al suo, e dirlo le costò uno sforzo: — Io voglio… vivere con voi.
Clara torse nervosamente fra le dita il fazzoletto bagnato di lacrime. — Ma piccola, noi abbiamo già avuto il nostro primo figlio-assegnato. Ce lo consegneranno il prossimo turno. E dopo io dovrò partorire un bambino che sarà assegnato a qualcun altro e… non ci darebbero mai il permesso di prenderci cura di te.
— Io ho pensato che forse potrei essere tua figlia. La tua vera figlia, voglio dire — mormorò Mary disperata, già sapendo quale sarebbe stata la risposta.
— Cara — disse dolcemente Clara, — i bambini non vivono con i loro genitori naturali. Non è pratico, e non è da persone civili. Io ho avuto una bambina, concepita e poi nata durante il mio turno, ma tu sei già troppo grande per poter essere stata partorita da me. Chiunque siano i tuoi genitori naturali, questo è un dato che appare soltanto negli archivi della Sorveglianza Medica e non ha molta importanza.
— Ma voi siete un caso speciale — insisté Mary. — E a causa della famiglia particolare a cui mi hanno assegnata io credevo che i miei veri genitori foste voi. — Rialzò lo sguardo e vide che Clara si era sbiancata in viso.
Anche Conrad Manz era piuttosto agitato, adesso. — Cosa vuoi dire con il fatto che siamo un caso speciale? — la interrogò seccamente.
— Ecco, voi… — E solo in quell’istante Mary si rese conto di quanto speciale fosse quel caso, e di come essi fossero sensibili riguardo al loro matrimonio.
Lui la prese per le spalle e la costrinse a guardarlo in faccia, fissandola con durezza. — Ti ho chiesto perché noi saremmo un caso speciale! Clara, per tutte le teste che non ho, cosa sta dicendo questa ragazzina?
La stretta dell’uomo le faceva male e Mary ricominciò a piangere. Se ne liberò, indietreggiando di scatto. — Voi siete gli ipoego dei miei genitori-assegnati, di mio padre e di mia madre. È per questo che ho pensato che potrei essere la vostra vera figlia… e che voi voleste tenermi qui. Io non voglio stare là con loro; io voglio qualcuno che…
Clara fu d’un tratto calma, libera da quell’improvvisa paura. — Ma cara, se coi tuoi sei infelice, soltanto la Sorveglianza Medica può assegnarti a qualcun altro. D’altra parte, può darsi che i tuoi genitori-assegnati abbiano dei problemi personali in questo momento. Forse, se cercassi di capirli, scopriresti che in realtà ti vogliono bene.
L’espressione di Conrad era invece quella di chi si rifiuta fermamente di capire. Quando parlò lo fece con gelida calma, gli occhi fissi in quelli di Mary. — Che cosa stai facendo qui? La figlia del mio iperego… in casa mia! E hai il coraggio di dire che vorresti vivere con me e con l’ipoego di tua madre!
Smarrita, Mary ebbe l’impressione che la terra le tremasse sotto i piedi. Negli occhi aveva soltanto quelle due facce che la fissavano immobili, silenziose, come congelate nelle sue lacrime mentre indietreggiava ciecamente fino alla porta. Poi volse loro le spalle e corse fuori, in quel mondo che le crollava attorno.
Il giorno di riposo di Conrad Manz fu quello successivo al pomeriggio in cui la figlia di Bill Walden era venuta a casa sua. Dieci giorni, dunque, da quando quella seccante riunione al municipio di Santa Fé gli aveva mandato a monte l’occasione di una buona gara di volojet. Stavolta, stabilendo che la gente con cui lavorava era propensa a indire riunioni d’emergenza nella mattinata, aveva iscritto il suo nome a una gara pomeridiana. La visita di Mary Walden continuava a metterlo sottosopra ogni volta che ci ripensava, ma poiché quello era il suo giorno di riposo si era ripromesso di non pensarci, e la psiche scrupolosamente drogata di Conrad era capacissima di mantenere quell’impegno.