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Il meccanismo automatico delle boe diede il segnale di partenza, e i due jet balzarono avanti per il primo giro, procedendo affiancati a poche centinaia di metri l’uno dall’altro. Al termine del primo percorso Conrad aveva già perso tre chilometri, esibendosi in curve troppo strette e veloci che subito dopo lo facevano deviare fuori dalla rotta ottimale.

Quello di un jet che decelerava bruscamente sfiorando le boe era uno spettacolo emozionante. L’altro pilota eseguiva curve pulite da manuale, usando quasi soltanto i razzi di coda. Ma questo non dava molto brivido agli spettatori che avevano regolato la televisione sul canale dov’erano in corso le gare. A ogni giro Conrad perse un po’ di terreno, anche se ciò non risultava evidente dal punto di vista delle telecamere automatiche montate sulle boe, perché lui si divertiva a sfiorarle pericolosamente, ridacchiando fra sé al pensiero dell’eccitazione che stava fornendo ai telespettatori.

Senza il benché minimo rammarico si accorse d’aver già perso la gara quando ancora mancavano due giri al termine. Si congratulò sportivamente con l’avversario e poi indugiò in quota, seguendo con lo sguardo l’altro velivolo che planava verso terra continuando a economizzare carburante. Per un poco Conrad girò intorno alle boe di partenza le cui telecamere lo stavano probabilmente inquadrando, e si esibì in una serie di manovre acrobatiche a bassa velocità.

La zona in cui si trovava era molto all’esterno dell’atmosfera, ed a Conrad il gelido vuoto dello spazio non piaceva affatto. Il buio senza vita su cui si stagliavano gli sciami di stelle gli appariva ostile e repellente. Ciò che lo eccitava nel volojet erano il tempismo e l’autocontrollo necessari alla manovra, e anche il pensiero che stava facendo qualcosa che avrebbe spaventato a morte il povero vecchio Bill Walden.

L’oscurità e il silenzio del firmamento stellato lo portarono a riflettere sui suoi problemi personali. C’era come un tarlo che lo rodeva: qualcosa in cui si mescolavano Clara, Bill Walden e la sua piagnucolosa figliola. Seccato da quell’intuizione così sfuggente diresse il velivolo verso terra, con una planata spettacolare che ridusse la sua già esigua scorta di carburante.

Ora che si soffermava a pensarci, lo strano comportamento di Clara era cominciato circa nello stesso periodo in cui Bill aveva preso l’abitudine d’imbrogliare sull’inizio del proprio turno. Quella ragazzina, Mary, doveva aver saputo che stava accadendo qualcosa altrimenti non avrebbe osato piombargli in casa in quel modo disgustoso.

Conrad aveva proseguito la picchiata fino a sentir sibilare l’aria intorno al jet, nella ionosfera. Sfruttando i pochi secondi che restavano tirò indietro la cloche e azionò i razzi frenanti, rallentando la velocità di discesa. Aveva appena cominciato a rimettersi in volo orizzontale quando due cose sconvolgenti accaddero insieme.

D’improvviso Conrad capì (vuoi per un momentaneo contatto fra la sua mente e quella di Bill, vuoi per semplice deduzione) che Bill Walden e Clara condividevano un segreto. E nello stesso momento qualcosa parve afferrargli il cervello come una gelida mano estranea.

Con una decelerazione di sette G che ancora lo inchiodava sulla poltroncina sagomata imprecò, a denti stretti: — Corpo di mille droghe! Cosa sta facendo quel maledetto pazzoide? Vuole ammazzarci entrambi?

Conrad fece appena in tempo ad allungare una mano per inserire il pilota automatico, prima che Bill Walden s’impadronisse di lui costringendolo a un’ego-rotazione anticipata. Nell’ultimo istante di consapevolezza, ancora stordito dall’ira e dalla vergogna per ciò che aveva capito, ebbe il tempo di riflettere con amara ironia che non poteva neppure prendersi la soddisfazione di spegnere i motori per ammazzare Bill Walden.

* * *

Quando Bill Walden sentì il rombo dei razzi di frenata e si accorse della pressione che schiacciava il suo corpo nell’imbottitura del sedile, una fredda morsa di terrore gli attanagliò il cuore. Il suo spavento fu tale che non pensò neanche di rifare l’ego-rotazione per restituire il corpo a Conrad, posto che ce ne fosse stato il tempo.

Malgrado il peso che gli comprimeva la nuca sul poggiatesta riuscì a voltarsi, e vide il terreno salire verso di lui come una mostruosa mazza che s’abbattesse sopra un insetto. Chiuso fra il panico e la squassante violenza della decelerazione perse conoscenza di colpo, senza neppure accorgersi che sui comandi si era accesa una scritta verde che gli prometteva salvezza: Pilota Automatico.

Il velivolo si appoggiò da solo sulla rampa, in un sibilare di razzi che si spegnevano. Bill rinvenne pochi secondi dopo, ma scosso com’era non riuscì a far altro che restare seduto sulla poltroncina, a lungo.

Quando infine riuscì a trovarne la forza si alzò, annaspò con mani tremanti e inesperte sul sistema d’apertura del portello, e vacillando scese sulla rampa intorno a cui aleggiavano ancora ondate d’aria surriscaldata. Il luogo distava oltre un chilometro dagli edifici del Volojet Club, visibili oltre una distesa di campi sterposi, e s’avviò a piedi in quella direzione. Ma non dovette camminare per molto perché un velicolo di servizio lo raggiunse quasi subito.

Il conducente spalancò la portiera. — Ehi, Conrad, che diavolo è successo? Perché non sei atterrato sulla rampa degli hangar?

Con il trucco di Conrad sulla faccia, Bill si disse che poteva giocare sull’equivoco. — I comandi non rispondevano bene — si limitò a spiegare con un gesto vago.

Al Club, un posto che vedeva per la prima volta in vita sua, Bill trovò un elicottero pubblico e vi salì, accendendo il quadro con il bracciale d’identità. Un breve volo lo riportò in città, e scese nello spazio d’atterraggio più vicino a casa sua.

Per lui quella era la fine, e lo sapeva. Conrad avrebbe fatto senza dubbio rapporto sull’accaduto. Non era stata sua intenzione forzare con tanto anticipo e con tanta violenza l’ego-rotazione. Forse, anzi, quella volta non avrebbe voluto forzarla affatto. Ma in lui era scattato qualcosa d’imprevisto e irresistibile… come se il bisogno di anticipare il turno per vedere Clara fosse diventato un istinto che agiva al di fuori della sua volontà e certamente al di fuori d’ogni ragionevole prudenza.

Salito su un’auto pubblica s’avviò cautamente nel traffico cittadino, avanzando nei viali spaziosi fra gli alti edifici con l’incertezza di un principiante per cui le macchine non fossero un’estensione del proprio corpo. Anche parcheggiare in uno spazio libero gli riuscì difficoltoso.

Clara non si sarebbe aspettata di vederlo così presto. Dal suo appartamento, non appena si fu rifatto il trucco, la chiamò con il visifono. Gli parve strano il modo in cui ormai si guardavano l’un l’altra, a lungo e con intensità, parlandosi più con gli occhi che a voce.

Poco dopo riuscì a calmarsi del tutto, e andò a cambiarsi con passo più energico. Ma quando allo specchio si vide vestito con gli abiti di Conrad, in casa sua, gli sfuggì una risata secca.

Fu mentre infilava il pacco con la roba di Conrad nel vano per la spedizione postale che notò la porta del ripostiglio. Era socchiusa. Mandò via il pacco e s’avvicinò alla porta, poi si fermò fuori, in ascolto. Dovette trattenere il respiro per udire meglio.

Con un brivido Bill allungò una mano e aprì la porta. E nella penombra vide Mary. La ragazzina sedeva sul pavimento, in un angolo, con le ginocchia sollevate contro il petto. I suoi fragili polsi erano incrociati sullo sterno, fra le ginocchia e il torace, e aveva i pugni chiusi come… come quelli di un feto. La fronte era china, gli occhi serrati e i lineamenti le si erano distesi in un’espressione vacua e lontana.

Quella vista sconvolgente mozzò il fiato a Bill e gli fece defluire il sangue dalla faccia. Con un fremito corse a inginocchiarsi davanti a lei. Nella sua gola, contratta, martellavano le parole: Oh, cosa ti ho fatto? Cosa ti ho fatto? ma non riuscì a dire verbo. Da quanto tempo la bambina era lì dentro? La domanda era così atroce che non poté sopportare di pensarci.