Stava per andarsene quando il visifono squillò. E lui fu così distratto da premere il pulsante di ascolto prima di riflettere. Soltanto con un drammatico attimo di ritardo la sua mano si raggelò, mentre le implicazioni di quell’atto lo facevano rabbrividire di spavento: a quell’ora, e per un’ora ancora, lui non avrebbe dovuto essere di turno.
Ma la faccia che comparve sullo schermo non era quella di un sorvegliante medico. La donna si presentò come la signora Harris, una delle insegnanti di Mary.
Strano che la Harris avesse pensato di poterlo trovare a casa. Il turno di ego-rotazione dei bambini era anticipato di mezza giornata rispetto a quello degli adulti, in modo che i genitori avessero il resto del giorno libero. Quel pomeriggio era stato per Mary il primo giorno scolastico del suo turno, ma l’insegnante doveva aver intuito che nello schema di ego-rotazione della sua famiglia qualcosa non andava. O era stata Mary stessa a dirglielo?
La signora Harris gli spiegò con accenti drammatici che Mary si sentiva trascurata. Cos’avrebbe potuto dirle? Che era un criminale e che ignorava le droghe nel modo più flagrante? Che per lui nessuno, neppure la figlia, contava quanto la moglie del suo ipoego? Bill riabbassò l’interruttore mettendo fine a quella conversazione inutile e forse anche pericolosa, e uscì di casa.
Capiva adesso che per lui e Clara i momenti migliori erano stati i primi che avevano trascorso insieme. Il timore snervante della Sorveglianza Medica annichiliva il piacere che traevano dal reciproco contatto, ed ora si cercavano quasi per disperazione perché dopo avere assaporato l’inebriante anticonformismo di quell’intimità senza droghe per loro non esisteva nient’altro. Anche in quel momento, guidando nel traffico verso il luogo dove lei era solita aspettarlo, a preoccuparlo non era tanto il pensiero d’incontrare Clara in un presente ormai avvelenato dalla paura quanto il ricordo di ciò che erano stati i loro appuntamenti passati.
Gli tornò a mente la sera d’estate in cui s’erano sdraiati sull’erba del parco a contare le stelle che comparivano nel cielo ancora chiaro. Era stato nel periodo in cui Clara aveva cominciato a imitarlo nel prendere sempre meno droghe, e il nitido ricordo dei suoi sorrisi spensierati gli strinse il cuore al punto che per poco non tamponò un’altra auto pubblica.
Con l’immaginazione tornò a baciarla come aveva fatto allora, mentre l’odore dell’erba appena tagliata si mescolava all’eccitante profumo della sua pelle. Dopo il bacio avevano ripreso la discussione scherzosa che stavano facendo su quell’antica parola: peccato. Bill aveva cercato di spiegargliene il significato in modo buffo, talora con definizioni che li facevano ridere entrambi talaltra con l’esempio, smorzando le risate di lei con la sua bocca.
Gli sembrò di rivedere il modo in cui lei s’era poi voltata a fissarlo, parodiando un pruriginoso interesse. — Capisci che roba? — le aveva detto. — Secondo gli antichi noi non potremmo essere peccatori, perché nessuno di loro ammetterebbe mai che tu ed Helen siete due persone diverse, o che io e Conrad non siamo lo stesso individuo.
Clara l’aveva baciato in modo diverso, sperimentale. — Mmmh! No, non sarei d’accordo con la loro interpretazione.
— Dunque preferisci essere una peccatrice?
— Definitivamente sì.
— Be’, se gli antichi fossero d’accordò con la Sorveglianza Medica che noi siamo diversi dai nostri alter-ego, Helen e Conrad, anch’essi direbbero che viviamo nel peccato… ma non per la stessa ragione.
— È qui che continuo a confondermi — aveva dichiarato Clara. — Se questa faccenda del peccato ha un qualche pregio, deve pur essere qualcosa che uno possa identificare chiaramente.
Bill uscì dalla corrente principale del traffico e svoltò verso il parco, senza interrompere quel flusso di ricordi.
— Be’, tesoro — aveva detto, — non voglio confonderti. Ma la Sorveglianza Medica direbbe che siamo peccatori solo perché tu sei l’ipoego di mia moglie e io l’iperego di tuo marito… in altre parole proprio per la ragione che gli antichi userebbero per affermare che non siamo peccatori. Se invece tu ed io facessimo l’amore con chiunque altro, la Sorveglianza Medica ci darebbe la sua benedizione, e così Conrad e Helen. A patto, naturalmente, che io mi mettessi con una iperego e tu solo con un ipoego.
— Naturalmente — aveva detto Clara, e lui aveva ignorato il suo sospiro malinconico.
— Gli antichi, d’altra parte, direbbero che facciamo all’amore in modo peccaminoso perché non siamo sposati fra noi.
— E che c’è di male in questo? Tutti lo fanno.
— Gli antichi Moderni non lo facevano. Ovvero, talvolta lo facevano, però…
Clara gli aveva mordicchiato un labbro. — Caro, credo proprio che l’idea degli antichi Moderni fosse buona; anche se non capisco come ci fossero arrivati.
Bill aveva sogghignato: — Era solo una delle loro invenzioni, come la ruota e l’energia atomica.
Il tramonto era passato da un pezzo quando Bill fermò la piccola auto pubblica presso il parco e la lasciò lì per chi altro avrebbe voluto usarla. Poi s’incamminò sul prato verso la statua sotto la quale lui e Clara erano soliti incontrarsi. Il solo pensiero d’entrare nella casa del suo ipoego gli riusciva ancora così intollerabile che dopo il primo appuntamento gli sembrava d’essere libero soltanto lì nel parco. Ma procedendo fra gli alberi non fu capace di trovare nulla dell’atmosfera che avevano respirato in quelle sere lontane. La Sorveglianza Medica incombeva su di loro: impossibile ormai riderci sopra.
Quando Bill arrivò sotto la statua Clara non c’era. Impaziente si aggirò avanti e indietro, mentre fra i rami degli alberi annosi si coaugulavano gli ultimi lividi grigiori del crepuscolo. Clara avrebbe dovuto essere lì da un pezzo. La cosa era più facile per lei, visto che quello era il suo turno e non aveva necessità d’anticipare la rotazione.
Appartato dalla confusione del traffico serale, il parco era un’oasi d’oscurità e di quiete al centro della città. Ma le luci dei viali facevano sentire Bill esposto e vulnerabile. E soprattutto provava un nuovo genere di solitudine, un brivido freddo che, ne era certo, colpiva anche Clara. E più che mai, ora che la paura li faceva sentire disperati e in pericolo, avevano bisogno l’uno dell’altra.
Nessuno dei due prendeva le droghe obbligatorie: un reato per cui sarebbero stati terribilmente puniti. Era questo l’imperdonabile supremo peccato del loro mondo. E nel compiere un atto che aveva mostrato loro cosa poteva essere la vera vita, avevano corso il rischio di perderla del tutto. Le emozioni forti che avevano scoperto in abbondanza semplicemente rifiutando le droghe erano divenute ancor più intense nei loro brevi incontri quando, a intervalli di cinque giorni, assaporavano il pericolo rompendo tutte le convenzioni. E più aumentava la terribile consapevolezza che sarebbero stati smascherati, più avevano bisogno anche della loro stessa paura, del brivido che li teneva in vita. Ma la dolcezza dei loro primi incontri era un’emozione che non esisteva più.
Un volatile notturno telegrafò i suoi pigolii attraversando il fosco pallore del cielo verso la statua, e svolazzò qua e là intorno al basamento. I suoi versi raddoppiarono d’intensità e poi tacquero, mentre evitava Bill con una spericolata deviazione. Dopo un poco, dall’altra parte del parco gli indirizzò uno squittio di protesta.
La statua che torreggiava su Bill era quella del grande Alfred Morris, nera contro il firmamento. I vuoti occhi di granito abbassavano verso di lui uno sguardo tenebroso e indecifrabile… l’antica e implacabile faccia della Sorveglianza Medica. Come a sottolineare una sentenza che gli arrivava da secoli di distanza, l’ombra di un ramo fronzuto danzava sulla targa metallica da cui un lontano lampione strappava riflessi aurei.