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Al momento era in preda a una delle sue agitazioni preferite.

«Senti Norman, una cosa interessantissima! Ero giù in archivio stamane, e che cosa mi capita fra le mani? Una vecchia tesi di laurea del 1930 scritta da un tale di cui non ho mai sentito parlare, dal titolo Superstizioni e nevrosi.» Tirò fuori dalla cartella un dattiloscritto rilegato che dall’aspetto pareva ingiallito senza che nessuno l’avesse mai aperto. «Quasi lo stesso titolo del tuo libro Parallelismi fra superstizioni e nevrosi. Che strana coincidenza, non trovi? Stasera me lo leggo.»

Si dirigevano entrambi alla mensa, affrettandosi per il viale gremito di studenti che ridevano, ciarlavano e li salutavano con un breve cenno del capo sorridendo. Norman studiava di soppiatto il viso di Sawtelle. Quel pazzo cretino ricordava certamente che il suo Parallelismo era stato pubblicato nel 1931, e aveva voluto insinuare l’idea di plagio da parte sua. Ma il riso nervoso di Sawtelle, un riso che mostrava i denti, era senza malignità.

Desiderò tirare da parte Sawtelle e dirgli che vi era più di una coincidenza, in quel fatto; e che non riguardava minimamente la sua onestà di studioso. Ma non gli sembrò il posto adatto.

L’incidente lo scocciava. Questo era innegabile. Da anni non aveva ripensato a questa stupida faccenda della tesi di laurea di Cunningham. Era rimasta sepolta nel passato, un punto vulnerabile ben nascosto, in attesa del colpetto d’unghia che lo facesse scoppiare.

Immaginazione asinina! Tutto si poteva spiegare, a questo mondo, a Sawtelle come a chiunque; ma in un momento più adatto.

La mente di Sawtelle era tornata alle sue preoccupazioni abituali.

«Lo sai, dovremmo deciderci a tenere la nostra conferenza sul programma di scienze sociali per l’anno prossimo. D’altra parte, credo sia preferibile attendere sino al momento in cui…» si fermò imbarazzato.

«…In cui abbiano deciso di attribuire la cattedra di questa specialità sia a te sia a me?» finì Norman per lui. «Non vedo perché. Comunque, dovremo pur sempre lavorare insieme.»

«Sì, naturalmente, non intendevo insinuare…»

Li raggiunsero altri colleghi sui gradini che portavano alla mensa. Il rumore di stoviglie che proveniva dal reparto studenti, calò d’un tono quando i professori entrarono nel santuario della facoltà.

Le conversazioni si svolsero sui vecchi, soliti temi, con qualche interrogativo sulla riorganizzazione e l’ampliamento del corpo insegnante, previsto per l’anno dopo ad Hempnell.

Vi fu qualche discreta allusione alle ambizioni politiche del preside Pollard. Harold Gunnison confidò che un certo gruppo politicamente potente cercava di convincere Pollard a porre la sua candidatura quale governatore dello stato. Discreti silenzi fra gli astanti sostituirono i pareri contrari a questa eventualità. Il pomo d’adamo di Sawtelle andava su e giù nervosamente in previsione di un possibile riferimento alla cattedra presto vacante di sociologia.

Norman riuscì a tenere una conversazione interessante con Holstrom, il professore di psicologia. Per fortuna era occupato con le lezioni e le conferenze di studenti fino alle quattro. Sapeva di poter lavorare una volta e mezzo più di Sawtelle; ma se avesse dovuto preoccuparsi anche di un quarto solo delle cose che preoccupavano Sawtelle…

Eppure la riunione delle quattro si svolse in maniera diametralmente opposta al previsto. Norman aveva la mano sul pomolo della porta che immetteva nello studio della signora Carr quando (come se questo gesto avesse provocato il necessario stimolo) una voce acuta, singhiozzante, scoppiò a dire:

«È tutta una bugia, sono io che ho inventato tutto.»

Gunnison sedeva vicino alla finestra, col viso leggermente voltato, le braccia conserte. Pareva un elefante un po’ annoiato, un po’ imbarazzato. In una poltrona al centro della stanza, stava raggomitolata una ragazza bionda, delicata. Le lacrime le scendevano sulle guance piatte e dei singhiozzi isterici le scuotevano le spalle. La signora Carr cercava di calmarla agitandola ancora di più.

«Non so perché l’abbia fatto» piagnucolava la ragazza. «Ero innamorata di lui e lui non mi guardava neppure. L’altra notte volevo uccidermi. Invece pensai ch’era meglio rovinarlo, fargli del male…»

«Margaret, ora ti devi calmare, riprendi il controllo di te stessa» ammonì la signora Carr, e le sue mani accarezzavano velocemente le spalle della ragazza.

«Un momento» disse Norman. «Signorina Van Nice…»

Lei si guardò attorno, poi lo fissò, come se a un tratto si rendesse conto della sua presenza.

Norman attese un secondo. Nessuno dei due si mosse. Infine disse: «Signorina Van Nice, l’altra notte… fra il momento in cui si voleva uccidere e quello in cui ha deciso di… rovinarmi in questa maniera, lei non ha fatto null’altro? Per esempio una telefonata?»

La ragazza non rispose, ma dopo alcuni minuti il suo viso solcato dalle lacrime si fece di brace, anche il collo divenne rosso e probabilmente tutto il corpo era rosso, perché anche le braccia dopo alcuni minuti divennero paonazze.

Gunnison osservava la scena più o meno incuriosito.

La signora Carr scrutava la ragazza con occhio critico, china su di lei. A Norman parve ci fosse qualcosa di innegabilmente maligno in quello sguardo indagatore. Ma era forse dovuto allo spessore delle lenti che ingrandivano gli occhi della signora Carr sino a farli somigliare agli occhi tondi dei pesci.

La ragazza non reagì quando le mani della signora Carr si posarono sulle sue spalle. Ora guardava Norman con un’espressione di supplica e di profondo imbarazzo.

«Va bene» disse Norman con gentilezza «non parliamone più.» E sorrise con indulgenza.

Di colpo l’espressione della ragazza mutò. Liberandosi dalle mani della signora Carr, fece un balzo in avanti, ponendosi di fronte a Norman.

«Io la odio» strillò «la odio!»

Gunnison seguì Norman fuori dall’ufficio. Sbadigliò, scosse il capo e commentò: «Sono contento che sia finita. Fra l’altro, il dottor Gardner mi ha detto che non le… era successo niente.»

«Figuriamoci se…» rispose Norman assente.

«A proposito» disse Gunnison, traendo dal taschino una busta rigida. «Ho qui un biglietto per tua moglie. Hulda mi ha chiesto di dartelo. Me n’ero dimenticato un momento fa.»

«Ho incontrato Hulda mentre veniva fuori dal suo ufficio, stamane» disse Norman pensando ad altro.

Un po’ più tardi, di ritorno a Morton, Norman cercò di riafferrare questi suoi pensieri, ma li trovò particolarmente sfuggevoli. Il drago di pietra sull’orlo del tetto di Estrey Hall sviò i suoi pensieri. Strane queste piccole cose. Non le noti per anni e un bel giorno improvvisamente non vedi che quelle. Quante persone avrebbero potuto riferire una sola cosa ben precisa a proposito degli ornamenti architettonici dell’edificio nel quale lavoravano? Nemmeno una su dieci, probabilmente. E neanche lui, se ieri gli avessero chiesto qualcosa a proposito di quel drago, sarebbe stato in grado di ricordare se ce n’era uno.

Si appoggiò sul davanzale della finestra, osservando quella sagoma simile a una grossa lucertola, eppure con qualcosa di grottescamente antropoide, illuminata dal tramonto incandescente che si diceva fosse il simbolo delle anime dei defunti che entravano o uscivano dal mondo dell’ai di là. Sporgeva dal cornicione, proprio sotto il drago, un busto scolpito appartenente alla serie dei grandi scienziati e matematici che ornavano la tavolatura. Riuscì a scorgere la parola “Galileo” che sovrastava una breve iscrizione non leggibile.

Quando si voltò per rispondere al telefono lo studio gli sembrò improvvisamente oscuro.

«Saylor… le volevo dire… Ecco, le do tempo fino a domattina…»

«Senti, Jennìngs,» disse Norman secco «ieri sera ho riattaccato il telefono perché continuavi a urlare. La tua politica di minacce non ti gioverà…»