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«Pareva temesse gli effetti di questo discorso sulle iscrizioni dell’anno prossimo. Mi ha parlato di alcuni suoi amici con figli in età universitaria, che hanno sentito il tuo discorso e sono stati spiacevolmente impressionati.»

«Vuol dire che sono degli ipersensibili.»

«Inoltre pareva pensare che vi fosse nel tuo discorso un’allusione al preside Pollard… alle sue attività politiche.»

«Mi spiace, ma devo andare alla lezione.»

«Benissimo» disse Thompson, e riattaccò. Norman fece una smorfia. La malignità delle cose era nulla in confronto alla malignità della gente. Si alzò d’un balzo e si avviò alla sua lezione sulle società primitive.

Gracine Pollard era assente, lo notò reprimendo un sorriso e chiedendosi se la lezione del giorno prima non fosse stata troppo forte per il suo senso della rispettabilità. Ma era giusto che anche le figlie dei presidi sentissero di tanto in tanto una o due crude verità. Su altri alunni quella lezione aveva avuto un effetto stimolante. Alcuni studenti avevano scelto seduta stante argomenti affini per i loro componimenti trimestrali e il capo dell’associazione universitaria aveva sfruttato la sconfitta del giorno prima preparando un articolo umoristico destinato al giornale del collegio, Il Buffone, sul significato primitivo dell’iniziazione nelle confraternite. In complesso era stata una lezione molto brillante.

A un tratto Norman si sorprese a riflettere sull’incomprensione della gente verso gli studenti universitari. In generale li considerava dei ribelli pericolosi, scandalosamente portati alle esperienze sotto l’aspetto della moralità. In verità le classi lavoratrici li vedevano come folli mostri di insanità e di perversione, assassini di bambini, organizzatori di riti sacrileghi equivalenti alle messe nere. In realtà erano individui assai più convenzionali di molti alunni di liceo, e in quanto a esperienze sessuali, erano più ignoranti indubbiamente dei ragazzi la cui educazione terminava con le medie.

Invece di piantarsi coraggiosamente in mezzo alla classe e proclamare la loro ribellione, erano più propensi a mostrarsi servilmente ipocriti, ansiosi di dire solo quelle cose che più piacevano al professore. Nessun pericolo di vederseli sfuggire di mano. Al contrario, era necessario allettarli, trascinarli gradatamente verso la verità, allontanarli dai tabù e dalle idee meschine che fiorivano nelle loro famiglie. E come si facevano più complessi quei problemi, e sempre più bisognosi di soluzione, vivendo come si viveva oggi, in un’era di moralità transitoria, in cui la fedeltà a una nazione, l’amore per una sola famiglia, tendevano a fondersi in una più ampia fedeltà, in un più ampio amore, oppure a precipitare nel caos atomico, egoista e spietato. Bastava per questo che lo spirito umano fosse calpestato, avvilito, mutilato dall’egoismo e dai timori tradizionali.

I professori non godevano di miglior stima da parte del pubblico in generale. In realtà formavano un piccolo nucleo di individui timorosi, oltremodo sensibili al consenso pubblico. Che questi professori di tanto in tanto avessero il coraggio di parlare apertamente, era senz’altro cosa molto lodevole.

Tutto ciò rispettava la tendenza, dura a morire, di una società che non vedeva nel maestro un educatore bensì una specie di vergine vestale, un sacrificio vivente, immolato sull’altare della rispettabilità, costretto in abitazioni adeguatamente austere, giudicato secondo un codice morale assai più severo di quello col quale si misurava la moralità di una massaia o di un uomo d’affari. E in quella vergine vestale, la verginità contava assai più dello zelo a mantenere viva la debole fiamma della curiosità scientifica e dell’onesta ricerca intellettuale. Per quello che importava alla gente, la fiamma poteva anche spegnersi, purché gli insegnanti rimanessero legati al loro tempio, a testimoniare che in qualche parte del mondo si mantenevano alti i valori morali.

Norman pensò amaramente: in fin dei conti, ciò che vogliono da noi è un’opera di magia, di un tipo blando, ma sempre di magia. E io che ho costretto Tansy a smettere!

Lo colpì l’ironia della situazione, e sorrise.

Fu di buon umore sin dopo l’ultima lezione del pomeriggio, quando s’imbatté nei Sawtelle davanti a Morton Hall.

Evelyn Sawtelle era una donna snob e una falsa intellettuale. Voleva dare a intendere di avere sacrificato una grande carriera di attrice per sposare Hervey. In realtà non era mai riuscita a ottenere la direzione del gruppo filodrammatico di Hempnell e si era dovuta accontentare di un piccolo incarico nella classe di recitazione. Il suo portamento era studiato, la scelta dei suoi vestiti pretendeva di essere artistica, il che, aggiunto alle guance piatte, ai capelli di un nero spento, e agli occhi anch’essi neri e privi di vitalità, faceva pensare a quel tipo di donna che si vede talvolta mentre passeggia maestosamente nell’atrio di un teatro durante gli intervalli di un balletto o di un concerto.

Ma lungi dall’essere un tipo da bohème, Evelyn Sawtelle era più propensa della maggior parte delle mogli dei professori a tormentarsi su questioni di prestigio e di protocollo. Purtroppo, data la sua ignoranza generale, questa sua trepidazione non le infondeva il tatto necessario. Anzi!

Il marito le era totalmente sottomesso. Lo dirigeva come si dirige una ditta, con uno zelo un po’ goffo, ma anche con alacre efficienza.

«Ho fatto colazione con Henrietta, voglio dire con la signora Pollard» annunciò a Norman con l’aria compiaciuta di chi ha appena compiuto una visita a un principe di sangue reale.

«Di’ un po’, Norman» cominciò Hervey agitatissimo, brandendo la cartella.

«È stato un interessante colloquio» continuò sua moglie imperterrita. «E abbiamo anche parlato di lei, Norman. Sembra che Gracine Pollard abbia frainteso alcune cose che lei ha detto in classe. È una ragazza tanto sensibile.»

Un’oca giuliva, pensò Norman, ma disse invece: «Davvero?» per pura educazione.

«La cara Henrietta era un po’ sconcertata, non sapendo come spiegare certe cose a sua figlia. Certo, è una donna di larghe vedute, molto cosmopolita. Le ho detto questo, Norman, perché pensavo che la potesse interessare. È importante dopotutto che nessuno si faccia una brutta opinione del nostro ramo scientifico. Non sei d’accordo, Hervey?» terminò bruscamente.

«Che dici, cara? Ah, sì, naturalmente. Senti Norman, volevo dirti di quella tesi che ti ho mostrato ieri. Una faccenda davvero straordinaria. Gli argomenti principali sono quasi identici a quelli del tuo libro. Un caso stranissimo, due studiosi che arrivano, ognuno dal canto suo, alle stesse conclusioni! Proprio come Darwin e Wallace, o…»

«Caro, tu non mi hai mai parlato di questa faccenda» disse la moglie.

«Aspetta un secondo» intervenne Norman.

Detestava fornire spiegazioni in presenza della signora Sawtelle, ma lo doveva fare.

«Mi spiace Hervey doverti dare una spiegazione terra-terra anziché soddisfare una coincidenza scientifica. È successo quando ero assistente qui nel 1929, il primo anno. Un ragazzo che si laureava, un certo Cunningham, si impadronì della mia idea (eravamo amici) e la inserì nella sua tesi di laurea. Un po’ perché a quel tempo il mio lavoro sulla superstizione e la nevrosi era solamente una mia materia di riserva, un po’ perché stetti a letto due mesi con la polmonite, non lessi la sua tesi finché non fu laureato.»

Swatelle batté rapidamente le palpebre, il suo viso riprese la sua solita espressione preoccupata. Una certa delusione apparve nello sguardo a succhiello della signora Sawtelle. Come le sarebbe piaciuto leggere quella tesi, soffermarsi su ogni paragrafo e lasciar vagare i suoi sospetti prima di udire la spiegazione.

«Io ero tremendamente irritato» continuò Norman «e lo volevo denunciare, quando appresi che era morto e che forse si era suicidato. Era un ragazzo un po’ squilibrato. Come potesse pensare di farla franca, dopo avermi rubato quelle idee, non lo so. Comunque decisi di non far nulla in tal senso per non urtare la sua famiglia. Questo fatto nuovo avrebbe forse giocato in favore della tesi del suicidio.»