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La signora Sawtelle pareva incredula.

«Ma Norman» commentò Sawtelle ansiosamente «ti pare sia stato saggio? Voglio dire, di non parlarne con nessuno? Non era un po’ rischioso, intendo per la tua reputazione accademica?»

Di colpo l’atteggiamento della signora Sawtelle cambiò.

«Rimetti quella roba in archivio e dimenticala» gli ordinò. Poi sorrise maliziosamente a Norman. «Mi scordavo di dirle che ho una sorpresa per lei, professor Saylor. Venga nell’auditorio e sentirà. Ci vorrà un minuto. Vieni Hervey.»

Norman non trovò scuse lì per lì e dovette accompagnare i Sawtelle nella sala dove si svolgevano le lezioni di recitazione, all’altra estremità di Morton, meravigliandosi che il reparto di recitazione potesse trovare impiego per una voce così nasale e così artificiale come quella di Evelyn Sawtelle, anche se si trattava della moglie di un professore e di un’attrice drammatica mancata.

La sala era scura e silenziosa, una specie di gran scatolone con i muri isolati acusticamente e doppie finestre. La signora Sawtelle, prese un dischetto dall’armadietto, lo inserì su uno dei tre giradischi, regolò un paio di quadranti. Norman sobbalzò: per un attimo ebbe l’impressione che un grosso camion si stesse avvicinando con un tremendo boato verso la sala acustica e che ne avrebbe sfondato i muri isolanti. Poi l’orrendo rumore che usciva dall’altoparlante divenne un gemito o un sospiro che pulsava stranamente, come il vento quando cerca di penetrare in casa. Questo secondo rumore non colpì Norman nella stessa maniera del primo. La signora Sawtelle tornò all’apparecchio e girò le manopole.

«Mi sono sbagliata» disse. «Questa dev’essere musica moderna o roba del genere. Hervey, accendi la luce. Ecco il disco che cercavo.»

Lo posò sul giradischi.

«Non so che cosa fosse, ma era orribile» disse suo marito.

Norman era riuscito a identificare il suo ricordo. Era stato un suo collega a fargli sentire uno strumento primitivo che gli aborigeni australiani usano talvolta per invocare la pioggia. Una specie di raganella, fatta di un pezzo di legno piatto appeso a uno spago, che fatto roteare emetteva quello stesso suono, un po’ simile al muggito di un toro.

“…Ma in quest’epoca di incomprensione e di violenza, noi volontariamente o negligentemente dimentichiamo che ogni parola e ogni pensiero devono riferirsi a qualcosa che esiste veramente. Se lasciamo penetrare nella nostra mente dei riferimenti all’irreale e al nonesistente…”

Norman trasalì nuovamente, perché ora era la sua voce che usciva dall’amplificatore ed ebbe l’impressione di fare un balzo indietro nel tempo.

«Sorpreso?» gli chiese Evelyn facendo la modesta. «È quella conferenza sulla semantica che lei ha tenuto la settimana scorsa. C’era un microfono sulla cattedra (lei credeva fosse destinato all’amplificazione del suono, vero?) e ne abbiamo fatto una registrazione di contrabbando, come le chiamiamo noi. Siamo arrivati fino a questo punto della lezione.»

Indicò il pesante giradischi posto su uno zoccolo di cemento che serviva alle registrazioni. Armeggiò con i quadranti e i pulsanti.

«Possiamo fare ogni sorta di cose con questi apparecchi. Mischiare i suoni, voci di sfondo sonoro, eccetera, eccetera.»

“…le parole possono ferirci, lo sapete. E, cosa più strana ancora, sono le parole che si riferiscono alle cose che non esistono a ferirci di più. Ebbene…”

Norman faticava a mostrarsi compiaciuto. Il perché della sua irritazione era irragionevole, come quella di un selvaggio che teme che qualcuno scopra il suo nome segreto. Gli dava fastidio l’idea che Evelyn Sawtelle potesse fare quello che voleva con la sua voce. Al pari del suo sguardo a succhiello, quell’azione indicava un desiderio di penetrare nella sua mente, di scoprire le sue debolezze segrete.

Per la terza volta Norman sobbalzò, perché improvvisamente usciva dall’amplificatore, mischiato però con la sua voce, il suono di quella raganella che ricordava il rombo atroce di un camion che vi viene addosso.

«Oh Dio! ho ancora rimesso quello» disse Evelyn Sawtelle rapidamente lanciandosi sui quadranti. «Come si fa ad avvilire una voce meravigliosa come la sua con quella tremenda musica?» Fece una smorfia. «Ma come ha detto lei, Norman, un momento fa? “I suoni non ci possono ferire”».

Norman non si diede la pena di correggere il tipico errore della citazione. La guardò un istante con curiosità mentre era in piedi di fronte a lui, le mani dietro la schiena. Suo marito, col naso arricciato, si era avvicinato al giradischi ancora in moto e tendeva verso di esso un dito incerto.

«No» disse Norman lentamente «non possono ferirci.» E prese bruscamente congedo dicendole: «Grazie per la dimostrazione.»

«Ci vediamo stasera!» gli gridò lei mentre usciva, come per dire: non ti puoi sbarazzare di me.

Come odio quella donna, pensò Norman, mentre si affrettava a scendere le scale buie e infilava il corridoio.

Di ritorno al suo studio, lavorò un’ora buona sui suoi appunti. Alzatosi per poi accendere la luce, l’occhio gli cadde sulla finestra.

Rimase brevemente a guardare, poi trasalì e si lanciò verso l’armadio per prendere il binocolo.

Colui che aveva attuato quello scherzo complicato doveva possedere un senso dell’humour molto misterioso. Scrutò attentamente il cemento nel punto dove si congiungevano l’orlo del tetto e le zampe dagli artigli prensili, cercando di scoprire delle crepe che avrebbero denunciato lo slittamento. Non se ne scoprì neanche una, ma era difficile farlo, data la poca luce del tramonto.

Il drago di cemento era ora aggrappato all’orlo della grondaia, come se stesse per scendere verso Morton strisciando sull’architrave del grande portico d’ingresso.

Alzò il binocolo verso la testa dell’animale, grezza e spoglia come un teschio abbozzato soltanto. Poi d’impulso l’abbassò a scrutare la sottostante fila dei busti scolpiti. Si fermò su quello di Galileo, mettendo a fuoco l’obiettivo, e lesse l’iscrizione piccola che non era riuscito a decifrare a occhio nudo.

Eppur si muove.

Erano le parole che si diceva Galileo avesse pronunciato dopo aver ritrattato davanti all’Inquisizione la sua teoria sulla rivoluzione della terra intorno al sole. Eppur si muove.

Un’asse del pavimento scricchiolò alle sue spalle, e Norman si voltò di botto. Un giovane pallido come la cera, con una folta chioma rossa stava in piedi accanto alla scrivania. I suoi occhi sporgenti parevano biglie lattescenti. Nella mano, dai tendini tesi e pronti a scattare, teneva una pistola calibro 22. Norman andò verso di lui, deviando leggermente sulla destra. La canna dell’arma si alzò.

«Ciao, Jennings» disse Norman. «Ti hanno reintegrato nei corsi, hai visto? E ti hanno alzato il punteggio sino al grado A.»

La canna della pistola si fermò un secondo.

Norman trattenne il respiro.

Il colpo partì, gli sfiorò il braccio sinistro e uscì dalla finestra bucandone il vetro.

La rivoltella cadde a terra. Il corpo di Jennings si afflosciò di colpo. Norman lo fece sedere nella poltrona e il ragazzo cominciò a singhiozzare convulsamente.

Norman raccolse la rivoltella afferrandola dalla canna. La ripose nel cassetto, chiuse il cassetto a chiave e si mise la chiave in tasca. Poi chiamò al telefono un numero interno del collegio. La comunicazione venne immediatamente.

«Gunnison?» chiese.

«Sì… stavo per uscire.»

«Senta, i genitori di Theodore Jennings abitano qui, vicino al collegio, non è vero? Lo sa, quel ragazzo che era stato bocciato nel semestre scorso?»

«Sì, stanno qui vicino. Perché, cos’è successo?»

«È meglio che li faccia venire qui subito. Che portino il dottore. Ha tentato in questo momento di uccidermi… Sì, il suo dottore. No, nessuno di noi è ferito. Ma fate presto.»