Norman ripose il telefono mentre Jennings continuava a singhiozzare disperatamente. Norman lo guardò con disgusto per un momento, poi gli batté sulla spalla.
Un’ora dopo Gunnison sedeva in quella stessa poltrona e mandava un lungo sospiro di sollievo.
«Sono ben contento che si siano convinti a chiedere il suo ricovero in un ospedale psichiatrico» disse. «È stato molto gentile da parte tua, Norman, non insistere per chiamare la polizia. Fatti come questi rovinano la reputazione di un collegio.»
Norman sorrise con stanchezza. «Ci vuol poco a rovinare la reputazione di un collegio. Ma quel ragazzo era ovviamente fuori di senno. Per di più, capisco che i Jennings, con le loro relazioni e influenze politiche, significhino molto per Pollard.»
Gunnison assentì, accesero una sigaretta e fumarono in silenzio. Norman pensava: “Com’è diversa la vita reale da un romanzo giallo, dove un tentativo di omicidio è generalmente considerato come una cosa seria, una causa di trambusto, con molte telefonate, l’intervento di poliziotti a decine, sia ufficiali sia ufficiosi… mentre qui, poiché la cosa è accaduta in un ambiente governato dal sentimento della rispettabilità anziché dalla cronaca, il fatto viene messo a tacere e dimenticato come se niente fosse”.
Gunnison guardò l’orologio «Devo sbrigarmi. Sono quasi le sette e veniamo a casa tua stasera alle otto». Ma si attardava, andava a guardare il vetro della finestra nel punto dove era uscito il proiettile.
«Posso chiederle di non parlare di questa faccenda a Tansy?» disse Norman «Non vorrei che s’impressionasse.»
Gunnison assentì. «Sarà meglio che non ne parliamo con nessuno.»
Indicò la finestra. «Quello è uno degli animali preferiti di mia moglie» osservò in tono divertito.
Norman vide che il suo dito indicava il drago di pietra ora illuminato dalla luce fredda dei lampioni stradali.
«Voglio dire» Gunnison continuò «che ne ha scattato decine e decine di fotografie. Hempnell è la sua specialità. Credo che abbia fotografato ogni sua stramberia architettonica. Quello è il suo beniamino.» Rise. «Generalmente sono i mariti che si chiudono nella camera oscura, ma in casa mia è il contrario. Eppure sono io il chimico.»
La mente tesa di Norman era balzata inspiegalmente al ricordo della raganella. Di colpo scopriva un’analogia fra il fatto di registrare quel rumore e quello di fotografare il drago. Ma frenò subito il desiderio di fare a Gunnison certe domande strane. Gli disse invece:
«Venga, è meglio che ci avviamo.» Gunnison notò, meravigliato, l’asprezza della voce. «Mi può dare un passaggio?» gli chiese Norman in tono più mite. «Ho lasciato la macchina a casa.»
«Naturalmente» rispose Gunnison.
Dopo avere spento le luci, Norman si fermò un momento a guardare dalla finestra. Gli tornarono in mente le parole: Eppur si muove!
6
Avevano appena riordinato i resti di una cena affrettata quando si udì il primo trillo del campanello. Con gran sollievo di Norman, Tansy aveva accettato senza far domande la spiegazione poco convincente del suo ritardo. Vi era qualcosa di strano, però, nella serenità che sua moglie aveva ostentato in questi ultimi giorni. Generalmente era più curiosa, più acuta. Naturalmente lui aveva badato a nasconderle gli incidenti preoccupanti e si riteneva soddisfatto di vedere che Tansy aveva dei nervi robusti.
«Tesoro! Sono secoli che non ti vediamo» disse la signora Carr, abbracciando e accarezzando Tansy. «Come stai? Come stai?» La domanda aveva un tono di curiosità particolarmente incisivo. Norman lo addebitò alla tipica aggressività Hempnelliana. «Oh Dio!» continuò la signora Carr «temo di avere un granello di polvere nell’occhio, il vento sta diventando atroce.»
«Violento» corresse il professor Carr, che insegnava matematica. Provava un’innocua soddisfazione a trovare sempre il termine appropriato per ogni cosa. Era un ometto piccolino con le guance rosse e una barbetta bianca a punta, ingenuo e distratto come si presume siano tutti i professori di collegio universitario. Dava l’impressione di vivere in un paradiso tutto speciale, fatto di numeri trascendentali e dei geroglifici della logica simbolica che egli manipolava con un’abilità che gli era valsa una fama non indifferente fra i matematici americani. Anche se Russel e White avevano inventato quei geroglifici, quando si trattava di manipolarli, di amare, coccolare quella esasperante, misteriosa materia, Carr era il primo dei prestigiatori.
«Mi pare se ne sia andato» disse la signora Carr, rifiutando il fazzoletto di Tansy e muovendo varie volte le palpebre sugli occhi rimasti spiacevolmente nudi fino al momento in cui calzò nuovamente le sue spesse lenti. «Ah, ecco gli altri!» disse mentre il campanello squillava nuovamente. «Non è stupendo che tutti siano così puntuali, a Hempnell?»
Mentre Norman andava ad aprire immaginò, in un attimo di pazza fantasia, che qualcuno stesse roteando una raganella fuori della porta, poi realizzò che era solo il vento che si stava adeguando alla definizione del professor Carr.
Si vide davanti Evelyn Sawtelle, con la sua figura angolosa, e il vento che le sbatteva il soprabito nero sulle gambe. Il viso, ugualmente angoloso, con gli occhi a succhiello, era proteso verso di lui.
«Mi faccia entrare, o il vento ci spingerà dentro a forza» gli disse. Tutti i suoi tentativi di essere spiritosa non sortivano mai alcun risultato, forse perché, uscendo dalla sua bocca, tutto pareva così stupidamente cupo.
Entrò, con Hervey a rimorchio, e puntò direttamente su Tansy.
«Cara, come stai? Cos’hai fatto tutto questo tempo?»
Norman fu di nuovo colpito dal tono inquisitorio della domanda. Per un secondo si chiese se quella donna avesse intuito qualcosa della mania di Tansy e della sua recente crisi. Ma la signora Sawtelle quando parlava ascoltava solo la propria voce, perciò dava un tono così enfatico a ogni parola.
Ci fu un rumoroso intreccio di saluti. Totem miagolò e fuggì come una freccia fuori dai piedi. La voce della signora Carr si udì al di sopra delle altre, con i suoi toni acuti da adolescente.
«Professor Sawtelle, le volevo dire quanto ci è piaciuta la sua conferenza sulla pianificazione della città. Era veramente molto significativa» Sawtelle si agitò tutto.
Norman pensò: “Allora è lui il preferito per la cattedra”.
Il professor Carr si diresse ai tavolini da gioco e si mise ad accarezzare distrattamente le carte.
«Ho studiato le probabilità matematiche del mazzo di carte» disse con l’occhio lucido, appena Norman fu a portata di voce. «Si ritiene che battendo le carte e rimescolandole, il gioco diventi una questione di fortuna o sfortuna. Ma non è vero affatto». Tolse la fascetta da un pacco di carte nuove e stese le carte sul tavolo.
«Il fabbricante dispone queste carte per seme… tredici quadri, tredici picche, tredici cuori, e così via. Ora supponi che io rimescoli perfettamente le carte, cioè divida il pacco di carte in parti uguali e alterni le carte a una a una.»
Tentò una dimostrazione ma le carte gli scivolarono di mano.
«Non è così difficile come sembra» continuò senza scomporsi. «Alcuni giocatori ci riescono ogni volta, in un battibaleno. Ma non è questo il punto. Immagina che io rimescoli due volte in modo perfetto le carte di un pacco nuovo. Ecco che, indipendentemente dal modo con cui sono state tagliate le carte, ogni giocatore riceverà tredici carte di un solo seme, il che, secondo la legge della probabilità, accadrebbe solo una volta in centocinquantaquattro miliardi di combinazioni, per una sola mano trascurando le altre tre.»
Norman annuì e Carr sorrise deliziato.